Il Go visto dagli scacchisti

Competizione,
contemplazione,
tanti problemi...
...e altro ancora

(You must play again the board, and not against the opponent - River Mountain Go, volume 2)


Nel 2006 l'allora campione del mondo di scacchi Vladimir Kramnik ebbe a lamentarsi in un'intervista di come fossero cambiati la stima e il rispetto che da sempre i giocatori più deboli avevano nei confronti di quelli più forti. Secondo Kramnik questo era dovuto al fatto che i computer erano ormai in grado di giocare meglio di qualsiasi essere umano e quindi sometimes amateurs, especially those who are not very active themselves, get the feeling that we are not playing that well, that we make mistakes all the time, that we need twenty minutes to play a move which Fritz finds in a few seconds. They may get the feeling that top chess players are not so strong at all (a volte i dilettanti, speciamente quelli che giocano poco, hanno l'impressione che noi non giochiamo così bene, che facciamo molti errori e che impieghiamo venti minuti a giocare una mossa che Fritz - uno dei migliori software in commercio - trova in pochi secondi. Può essere che finiscano per pensare che i migliori giocatori non siano poi così forti).
Kramnik aveva pienamente ragione: una delle molte cause che stanno facendo declinare il gioco degli scacchi e l'interesse del grande pubblico è appunto lo sviluppo avuto dai programmi di gioco. Una volta, diciamo negli anni '70 e ancora negli anni '80, i Grandi Maestri erano considerati degli esseri superiori, in grado di effettuare calcoli strabilianti in frazioni di secondo, dotati di una memoria incredibile (si diceva che Kasparov conoscesse a memoria milioni di partite) e di una intelligenza sovrumana. Ricordo ancora che in occasione del leggendario match tra Spassky e Fischer i maggiori quotidiani avessero evidenziato come il QI del russo fosse intorno ai 180 e quello dell'americano addirittura superiore ai 200! Roba da far schiattare d'invidia i soci Mensa. Ricordo anche la venuta a Roma di Yury Averbach, allora presidente della potentissima Federazione Sovietica, e del quale si parlava come del "Gran Maestro", non "Grande Maestro", quasi fosse il capo di un ordine religioso piuttosto che un ex-giocatore di primo, ma non primissimo, piano.
Chi conosce, oggi, il QI di Anand o di Kramnik? E il titolo di Grande Maestro è così inflazionato da aver perso comunque tutto il suo fascino. Ma tornando ai programmi di gioco, sono ormai frequenti i casi in cui gli stessi organizzatori dei tornei mettono a disposizione del pubblico, in apposite sale o nei siti Internet, software in grado di analizzare in tempo reale le partite in corso, mostrando immediatamente ogni piccolo errore commesso dai giocatori, ridotti quasi a scimmie sapienti le cui performance vengono misurate da scienziati più divertiti che appassionati. Si è così scoperto che anche i giocatori più forti commettono una valanga di errori, anche se meno gravi e frequenti rispetto a quelli commessi nei tornei minori. Ma soprattutto è il gioco ad essere stato "demitizzato". Che interesse può avere una partita per il titolo mondiale quando già si sa che il livello di gioco espresso dai due contendenti sarà lontano da quella perfezione che prima si riteneva scontata? Che fine farà la "partita immortale" di Anderssen, ora che tutti possono rendersi conto che i demeriti di Kieseritzky furono superiori ai meriti del suo avversario?
Come il titolo di una famosa canzone dei Buggles, "Video killed the radio star", così il computer ha tolto per sempre un certo fascino agli scacchi. Dal 2006 nessuno, ormai, si cimenta nell'impossibile compito di sfidare un programma. L'ultimo a provarci fu proprio Kramnik, alcuni mesi dopo l'intervista citata prima: l'umiliazione fu tale (in una partita non vide un matto in uno) che da allora la superiorità dei programmi (che nel frattempo hanno incrementato il loro vantaggio) non è più stata contestata.

Per questa ragione, dopo aver letto l'intervista di Kramnik ho iniziato a interessarmi al Go, antico gioco nato in Oriente come gli scacchi ma, a differenza di questi, relativamente poco diffuso in Occidente: il numero enormemente superiore di posizioni raggiungibili nel corso di una partita e il prevalere dell'aspetto strategico su quello tattico rendono il Go, ancora oggi, immune dal "problema software". I programmi che giocano a Go, pur essendo abbastanza forti, non possono competere coi migliori giocatori e la situazione complessiva assomiglia a quella che si verificava negli scacchi una ventina di anni fa. Esiste quindi, a mio giudizio, una possibilità concreta che il Go, con i suoi "professionisti" giapponesi, cinesi e coreani, possa prendere il posto degli scacchi e degli inflazionati Grandi Maestri per quanto riguarda l'interesse del pubblico, dei media e degli sponsor. Il problema è che questa possibilità è solo teorica, e se il gioco non "sfonda" nel mondo occidentale tale rimarrà. Purtroppo ci sono diversi problemi che al momento impediscono che questo avvenga e difficilmente questi verranno risolti nei prossimi vent'anni. D'altra parte, non è da escludere che i programmi in grado di giocare a Go non riescano mai a competere ai massimi livelli: i problemi, in questo caso, verranno prima o poi superati. Purtroppo, se si studiano con attenzione i progressi compiuti da questi programmi, il risultato è quello presentato nella tabella a destra (relativa ai soli software/hardware commerciali), pubblicata recentemente nel noto sito scacchistico Chessbase: ne ho eliminato i riferimenti a Rybka (programma recentemente squalificato per "plagio" e oggetto dell'articolo da cui è tratta la tabella) e ne ho poi "sintetizzato" le caratteristiche nel grafico a sinistra. La linea retta che ne risulta mostra che da più di trent'anni la forza di gioco dei programmi è aumentata linearmente (circa 40 punti Elo ogni anno - il progresso "umano" è di soli 4 punti/anno), il che significa che nessun ostacolo, né di tipo hardware né di tipo software, ha potuto rallentarne la crescita; e questo nonostante non vi siano stati progressi significativi nel campo dell'intelligenza artificiale - campo in cui molti riponevano grandi speranze all'inizio degli anni '70. Come si può constatare dal grafico sottostante, anche i programmi che giocano a Go progrediscono linearmente (per quanto più lentamente), e non è affatto da escludere - dato che al momento occorrono circa tre anni per salire di due livelli - che nei prossimi vent'anni si ripeta quanto accaduto negli scacchi. A meno che ad un certo punto non compaiano ostacoli tali da bloccare il progresso dei computer: ma quali potrebbero essere questi ostacoli? Si pensava, una volta, che il prevalere dell'elemento strategico su quello tattico, come avviene negli scacchi giocati ad alto livello, fosse un ostacolo non superabile dai programmi senza far ricorso a tecniche di intelligenza artificiale. Così non è stato: perché la strategia è semplicemente la capacità di giocare mosse che non hanno vantaggi immediatamente prevedibili, ma ne hanno a lunga scadenza. E una scadenza "lunga" per un essere umano - diciamo una quindicina di mosse - non è più tale per i programmi. Questi sono ormai in grado di calcolare ogni variante plausibile sino a 15 o 20 mosse (e nei finali si superano le 40-50 mosse), così che quella che, dal nostro punto di vista, è appunto la strategia, dal loro è semplicemente tattica sviluppata ben oltre le capacità umane. Per usare un'espressione simil-matematica, ma estremamente efficace, potremmo dire che . Se questo è vero, anche il Go non avrà scampo.

Ma se così non fosse? Allora sarebbe bene che i "goisti" si dessero da fare per superare quei problemi a cui finora ho soltanto accennato. Prima di iniziare a parlarne, è bene dare un'occhiata alla tabella riportata a sinistra: questa mostra le equivalenze, in termini di livello, categoria e punteggio Elo, fra giocatori di Go e giocatori di scacchi, e può aiutare molto chi, soprattutto tra gli scacchisti interessati al Go, non avesse le idee chiare sul significato di termini come "Kyu", "Dan" e sulla forza dei "goisti".
E' attendibile, questa tabella? Abbastanza, se non si pretende che la corrispondenza sia esatta. Nel Go non esiste una classifica Elo globale (c'è in Europa) e i criteri di passaggio da un livello all'altro non sono analoghi a quelli in uso negli scacchi: per questa ragione la corrispondenza è solo approssimativa. Se qualcuno dice di essere "13 kyu", per esempio, la tabella ci dice che grossomodo questo corrisponde a una 2° Nazionale scacchistica - ma nulla di più. Certo, la faccenda è più complessa di quanto sembri. In certi ambienti (per esempio la federazione europea e quella inglese) il livello più basso è 20 Kyu, ma questo non significa che sia anche il livello minimo: significa che i giocatori più deboli non vengono classificati. Nella maggior parte degli ambienti (per esempio Wikipedia) si assume che il livello minimo sia 30 Kyu, ma quasi tutti ritengono che classificare giocatori più deboli di 20 Kyu sia molto difficile, se non del tutto aleatorio. Ci sono posti dove il livello minimo è fissato addirittura a 50 Kyu (per esempio, il noto sito "The interactive way to Go"). Se ci si ferma a 30 Kyu non è troppo difficile ricostruire il resto della tabella, assumendo una scala lineare e considerando da un lato che 20 Kyu è il primo livello al quale si viene classificati "ufficialmente" e dall'altro che "dan" è sinonimo di "maestro". Il risultato è probabilmente corretto e una conferma, anche se molto indiretta, ce la dà il noto libro di Toshiro Kageyama "Fundamentals of Go", quando parla, a pagina 11, delle "quattro barriere" che incontrano i dilettanti nel loro progresso: a 12-13 Kyu, a 8-9 Kyu, a 4-5 Kyu e a 1-2 Kyu. Chiunque conosca bene il mondo degli scacchi sa bene che vi si incontrano due barriere principali: tra la 1° Nazionale e i Candidati Maestri, quando, a meno di non possedere un grande talento, non è più sufficiente una pratica sporadica per avanzare di livello, e nel passaggio tra Maestri Internazionali e Grandi Maestri, che solo un professionista è in grado di compiere (se vuole restare ai livelli di punteggio che si addicono al massimo titolo). Ebbene, uno sguardo alla tabella ci mostra che la barriera degli 8-9 Kyu corrisponde pienamente alla prima delle tre esistenti in ambito scacchistico (io stesso ho un amico fermo da anni ai 1900 Elo <=> 8 Kyu), mentre anche quelle minori si ritrovano senza difficoltà: quella a 12-13 Kyu, vale a dire il centro della fascia di 2° Nazionale, è dove si fermano molti giocatori di non grande talento scacchistico (fra cui io stesso), quella a 4-5 Kyu fa pensare ai problemi che hanno molti giocatori appena diventati Candidati Maestri (livello al quale ci si deve confrontare con i giocatori di categoria superiore, Grandi Maestri inclusi) e che, nel timore di "retrocedere", smettono di giocare prima del tempo. Quella a 1-2 Kyu, infine, corrisponde al passaggio fra Candidati Maestri e Maestri, che richiede necessariamente o un notevole talento o una dedizione al gioco di tipo semiprofessionistico. Kageyama non menziona - il suo libro non è così avanzato - l'ultima barriera goistica, vale a dire la transizione da 7 Dan al al professionismo, che è del tutto equivalente al secondo grande ostacolo in ambito scacchistico: il conseguimento del titolo di Grande Maestro. In Italia, giocatori come Tatai e Arlandi confermerebbero tristemente l'esistenza di quest'ultima barriera.
Ulteriori dubbi potrebbero sorgere per quanto riguarda la corrispondenza tra Elo scacchistico e valore dei professionisti: sono in molti a ritenere che i loro livelli siano molto più "compatti" rispetto a quelli dei dilettanti, più ancora rispetto a quanto appare nella mia tabella. Si dice, infatti, che in genere tra un livello e l'altro vi sia "una pietra" (di handicap) di differenza, ma che tra il primo e l'ultimo livello dei professionisti ce ne siano - al più - tre soltanto. Tuttavia, questo si verifica perché tra i professionisti il passaggio da un livello all'altro è particolarmente lento, come nelle arti marziali, e può richiedere molti anni. Nel noto Manga "Hikaru No Go" Akira ribatte, a chi pensa che Hikaru non sia molto forte solo perché si trova al primo livello, che questo non ha nulla a che fare con l'effettiva forza di gioco. Se è vero che la forza di un giocatore appena diventato professionista corrisponde più o meno a quella di uno scacchista sui 2500 punti Elo, è anche vero che a causa dei tempi richiesti per passare da un livello al successivo gli shodan (i giocatori di 1° livello) finiscono per distribuirsi lungo la fascia (equivalente) tra 2500 e 2600 punti Elo prima di diventare nidan (2° livello). E così via. Il risultato è che quasi tutti i giocatori professionisti sono compresi nella fascia (equivalente) tra i 2580/2600 e i 2700/2720 Elo, con una minoranza sotto i 2580 (quei pochi dal livello realmente basso) e un'altra minoranza sopra i 2720 (quei pochi che formano l'elite goistica). 120 punti di differenza, fra i dilettanti, corrispondono a tre livelli e quindi a 3 pietre di handicap: alla fine i conti tornano.
Ma la tabella a fianco serve anche a comprendere quanto sia profonda la differenza tra scacchi e Go per ciò che riguarda la diffusione del gioco - da questo si potrà capire perché è difficile risolvere i problemi a cui ho accennato in precedenza. In Italia, per fare un esempio, ci sono 7 Grandi Maestri e 30 Maestri Internazionali di scacchi (esclusi i giocatori di orgine slava): per contro, nessun giocatore professionista di Go (equivalente di un GM) e nessun 5°/6°/7° Dan (equivalente di un MI): c'è un solo giocatore, il milanese Francesco Marigo, che potrebbe aspirare a diventare almeno 5° Dan. La differenza è abissale. Se ci spostiamo in Germania, la cui tradizione scacchistica (e goistica) è ben superiore alla nostra, la situazione è analoga: a fronte di 50 Grandi Maestri e 160 Maestri Internazionali, nessun giocatore professionista di Go (qualche anno fa è morto Hans Pietsch, tra i pochi occidentali ad esserci riuscito) e 18 di livello 5°/6°/7° Dan, esclusi quelli di origine orientale. Per contro, se andiamo in Cina troviamo 23 Grandi Maestri e 14 Maestri Internazionali (e fino a pochi anni fa, prima che la Cina cominciasse a occidentalizzarsi, ce n'erano molti di meno) a fronte di 304 professionisti di Go e alcune migliaia di giocatori intorno al 5°/6°/7° Dan.

Perché succede questo? Perché un gioco è così diffuso in Occidente e l'altro in Oriente? Esiste una ragione profonda, non così evidente a chi non conosce un po' la mentalità "orientale". Ed è qui il problema che andrebbe superato se si vuole che anche il Go raggiunga, in Occidente e in tutto il mondo, la fama degli scacchi. In Occidente domina da molti secoli una mentalità "competitiva", la stessa che ha portato a innumerevoli scoperte e invenzioni (ma anche al capitalismo sfrenato e alle guerre) e così pure al fiorire di infinite competizioni sportive, Olimpiadi in testa. In Occidente ci si afferma superando gli altri e dimostrando così di "essere migliori". In Oriente, viceversa, domina una mentalità "contemplativa", che non reputa necessaria la competizione e punta invece alla conoscenza di sé stessi e al raggiungimento dell'armonia interiore: questo, da loro, significa "essere migliori".
Beninteso, tutto ciò è teoria. I due mondi non sono opposti e inconciliabili come pensavano i giovani che negli anni '70 si recavano in massa in India alla ricerca di "spiritualità". Le differenze sono sottili, e spesso più teoriche che reali. Ma bastano e avanzano a creare profonde dicotomie: per esempio, questa è una delle ragioni per cui in Oriente non ci sono grandi tennisti, ciclisti o podisti. Il massimo della competizione si raggiunge negli sport individuali e la mentalità orientale è un ostacolo alla nascita di grandi atleti in queste discipline (pur con qualche eccezione); viceversa l'Oriente si difende assai meglio negli sport di squadra, dove conta molto la collaborazione fra atleti (ad esempio pallamano e pallavolo). Gli scacchi sono diventati famosi nel mondo occidentale e hanno finito per assorbirne la mentalità competitiva: questo - insieme con la natura aggressiva del gioco stesso - ne ostacola la diffusione in Oriente (nonostante siano originari dell'India - paese comunque meno orientale di quanto si crede), dove sono praticati pochissimo (il Giappone non ha neanche un Grande Maestro!). Il Go, invece, per natura meno aggressivo degli scacchi e più elegante da un punto di vista puramente estetico, si è diffuso senza problemi. Ma in Occidente, a causa del perdurare dei problemi di cui ora vedremo i dettagli, non riesce a diffondersi: questo accade perché la natura di questi problemi impedisce al Go di diventare "competitivo", condicio sine qua non perché l'Occidente vi si interessi; ma gli stessi problemi non ne ostacolano lo spirito "contemplativo" e vengono quindi accettati o minimizzati dai giocatori stessi, quasi tutti orientali, che non hanno interesse a cambiare lo status quo e non si adoperano in questo senso. Persino i pochi giocatori occidentali che praticano il Go appartengono alla minoranza "contemplativa" e non si preoccupano più di tanto di diffondere il gioco.
Quanto questa mentalità influisca sulla concezione del gioco, lo si vede quando si parla di "bot", vale a dire di programmi che giocano a Go. I goisti sono abbastanza unanimi nello sconsigliare a tutti di giocarci contro, forti o deboli che siano. Se gli si chiede perché, la risposta è "non si impara niente, tranne che scoprire e sfruttare i loro punti deboli".
Qualunque giocatore di scacchi - e non solo - rimarrebbe sconcertato di fronte a tale risposta. Gli scacchisti sanno bene che c'è sempre da imparare qualcosa da chi - essere umano o computer - è più forte, e in quanto al trovare e sfruttare i punti deboli di un avversario, ne sarebbero ben felici, dato che acquisire questa capacità è un passo essenziale per riuscire a migliorarsi. Ma tutto ciò è importante da un punto di vista "competitivo", non da quello "contemplativo" dei goisti. Per loro non è così importante superare un avversario, quanto giocare bene: il concetto è espresso a meraviglia dal fantasma di Sai, sempre in "Hikaru No Go". Scopo di Sai non è quello di vincere (o far vincere a Hikaru) qualche torneo o battere tutti gli avversari, quanto quello di giocare la "partita perfetta". Sai cerca lo scontro col Mejin, non tanto perché vuole batterlo, quanto perché la partita perfetta richiede che l'avversario sia il miglior giocatore in circolazione; vincere la partita è una conseguenza della sua perfezione, non lo scopo. Ovvio che, da questo punto di vista, nulla si può imparare da un programma, carente strategicamente e quindi totalmente incapace di indirizzare i suoi avversari verso la "perfezione". Uno scacchista, tuttavia, imparerebbe moltissimo dalle sottigliezze tattiche dello stesso programma disprezzato dai goisti, persino quando il suo livello di gioco (magari grazie a strategie apprese in modo tradizionale) dovesse consentirgli di batterlo la maggior parte delle volte.
Affrontiamo dunque i famosi problemi che impediscono una diffusione capillare del Go in Occidente: si tratta di problemi legati alle regole, che andrebbero quindi riviste e leggermente modificate. Tre sono i problemi veramente gravi:

1 - Le regole non uniformi

Incredibile ma vero! Le regole del Go cambiano da un paese all'altro, seguendo antiche tradizioni, e nessuno ha mai pensato che forse sarebbe il caso di unificarle. Che dicono i goisti? Che le differenze sono trascurabili, il che è vero. Ma immaginiamo che in Europa le partite di calcio si giochino con 11 giocatori per squadra, e in Sudamerica con 10. Differenza trascurabile? Indubbiamente. Ma non avremmo più la Coppa del Mondo, e i trasferimenti dei giocatori fra i due continenti diventerebbero problematici. Anche organizzare partite amichevoli non sarebbe semplice, e i litigi fra i sostenitori delle due formule non avrebbero mai fine.
Pure, nel Go è così: sul sito della Federazione inglese si trova persino una tabella comparativa che illustra le differenze. E sono solo quelle più importanti! Tuttavia, il vero problema è un altro: è possibile unificare le regole? Se davvero le differenze fossero trascurabili, la cosa sarebbe relativamente facile. E in effetti così sembrerebbe. Putroppo c'è una differenza - una sola - che, a dispetto di quanto pensano i goisti, è piuttosto importante. Come qualcuno avrà già intuito, si tratta della regola che stabilisce come calcolare il punteggio.
Ebbene, in Giappone si contano gli incroci circondati dalle proprie pietre, e poi si sottrae il numero di pietre (del proprio colore) già catturate o ancora presenti sul goban ma che non sono in grado di sfuggire alla cattura (le cosiddette pietre "morte"). Si osservi il diagramma numero 1, che potrebbe rappresentare la posizione finale di una partita fra neofiti: il bianco ha giocato per ultimo in H3, dopodiché entrambi i giocatori hanno "passato". Il nero controlla 30 incroci, ma bisogna sottrarre 1 punto perché la sua pietra in J3 è "morta": 29 punti in tutto. Il bianco controlla 30 incroci, incluso ovviamente J3, e quindi ha vinto la partita. In Cina, invece, si contano sia gli incroci circondati dalle proprie pietre che le pietre stesse (escluse ovviamente quelle "morte"). Le pietre già catturate o "morte" non vengono contate. L'equivalenza dei due metodi non sembra affatto scontata ma, se i giocatori hanno "passato" lo stesso numero di volte (e in genere è così) il risultato è identico. Si torni a osservare il diagramma numero 1: con la regola cinese il nero controlla sempre 30 incroci ai quali si aggiungono le 10 pietre "di confine" (quella in J3 non conta), per un totale di 40 punti. Il bianco controlla pure 30 incroci (incluso J3) e ha 11 pietre intorno (o dentro) al suo territorio: totale 41 punti. Ha quindi vinto il bianco di un punto, esattamente come prima.
Dov'è dunque il problema? E' che non è detto che i giocatori passino lo stesso numero di volte. Torniamo al diagramma numero 1, e supponiamo che il bianco, dopo aver giocato in H3 e dopo che il nero ha passato, cada preda di "scrupoli" e decida di catturare la pietra in J3 invece di lasciarla "morta" sul goban. Per quanto nella situazione del diagramma - l'esempio è volutamente semplificato - la cosa sia improbabile, anche per un neofita, non lo sarebbe affatto in una posizione più complessa. Il bianco potrebbe allora giocare una pietra in J2, il nero passare di nuovo e infine il bianco chiuderebbe "in bellezza" giocando in J4 e rimuovendo dal goban la pietra nera. A questo punto entrambi i giocatori passerebbero e la partita si chiuderebbe con la posizione mostrata nel diagramma numero 2.
Calcoliamo adesso il nuovo punteggio. Con la regola cinese il nero ottiene, come prima, 40 punti: 30 incroci e le 10 pietre di confine. Il bianco controlla adesso 28 incroci, ma le sue pietre di confine o incluse nel suo territorio sono salite a 13, per un totale di 41 punti. Nulla è cambiato rispetto a prima. Ma se effettuiamo il calcolo con la regola giapponese, ci accorgiamo che il nero, come prima, controlla 30 incroci ed ha una pietra catturata = 29 punti. Il bianco, invece, controlla 28 incroci e ha quindi perso di un punto. Il risultato si è ribaltato!
Direbbero subito alcuni goisti che questo è dovuto "solo" alle mosse sconsiderate giocate dal bianco a fine partita. Ma questo non è vero, poiché in Cina tali mosse non sarebbero state affatto sconsiderate. Anzi, neanche si potrebbero definire strane: inutili, al più. E perché mai ciò che si può fare tranquillamente in Cina dovrebbe portare alla sconfitta in Giappone? Altri goisti farebbero notare che esiste una variante alle regole giapponesi che impone di cedere all'avversario una pietra ogni volta che si passa (non una pietra presente sul goban, ovviamente!): le pietre catturate grazie a questo escamotage risolverebbero il problema appena constatato, come si può verificare immediatamente. Ma è pur vero che due regole complicate non ne fanno una semplice, e l'escamotage, per quanto ingegnoso, pare ingiustificato: perché mai passare dovrebbe essere penalizzante? Tanto varrebbe abolire questa possibilità.
Ma in fin dei conti l'escamotage funziona: c'è allora davvero bisogno di unificare questa regola? Purtroppo l'essenza del problema è un'altra. Immaginiamo una situazione in cui uno dei due giocatori abbia respinto con successo un tentativo di invasione, "uccidendo" numerose pietre nemiche all'interno del suo territorio. Arriva fatalmente un momento in cui il giocatore, specialmente se di livello medio-basso, viene preso dai dubbi: le pietre nemiche sono davvero "morte"? Il suo intuito gli dice di sì, ma la posizione sul goban non è così semplice da dargli una certezza assoluta. Cosa fare in questa situazione? Giocare ancora una o due pietre all'interno del proprio territorio acquisendo questa certezza o cercare di espandersi nelle zone del goban ancora contese?
Se fosse in vigore la regola giapponese che, come abbiamo visto, penalizza chi gioca inutilmente all'interno del proprio territorio, la seconda opzione avrebbe probabilmente la meglio. Ma se invece fosse in vigore la regola cinese, la scelta potrebbe essere diversa. In altre parole, la regola in vigore influenza lo stile di gioco e forse anche l'esito della partita: la regola giapponese, più raffinata, produce un gioco più vario e offensivo; quella cinese, più semplice, porta a un gioco più conservativo e prevedibile. Sfumature, ovviamente, ma sfumature che nondimeno esistono. Alcuni giocatori potrebbero trovarsi meglio con la regola cinese, altri con quella giapponese.
Per far capire agli scacchisti come una regola possa influenzare lo stile di gioco, si pensi a cosa succederebbe negli scacchi se ci fossero due versioni della regola dello stallo: questa dice che quando un giocatore, pur non essendo sotto scacco, non è in grado di eseguire mosse legali, la partita è patta. Immaginiamo una variante (magari giocata in Russia e in Ucraina) che stabilisce invece che lo stallo significhi partita persa per il giocatore che vi incappa. I goisti potrebbero sostenere che la differenza è trascurabile, dato che è rarissimo che lo stallo si verifichi in partita, cosa peraltro vera: ma gli scacchisti capirebbero subito che il diverso esito di molti finali di fondamentale importanza (per esempio, Re e Pedone contro Re oppure Re e Regina contro Re e Pedone in settima) avrebbe una profonda influenza sullo stile di gioco e quindi sull'esito delle partite. Posizioni in cui è stata concordata la patta sarebbero state da giocare ancora se non da abbandonare, e viceversa. E questo non dappertutto, ma solo in quei paesi con la regola "modificata"! Nessuno scacchista potrebbe accettare una situazione del genere, e meno che mai minimizzarla, sostenendo che "tanto lo stallo non si verifica quasi mai". Non è il suo verificarsi, quanto la possibilità che questo accada a influenzare lo stile di gioco.
Regola cinese o giapponese? Probabilmente, se si arrivasse a unificare le regole, in questo caso si sceglierebbe quella cinese, più semplice. Ma l'importante è che si arrivi a unificarle, tutte!
(chi fosse convinto, già a questo punto, della gravità del problema, può "deliziarsi" con un esempio che mostra ancora meglio l'assurdità di questa situazione)

2 - I "tempi supplementari"

Nel Go non esiste la patta. La partita potrebbe terminare in parità, ma si tratta di un caso raro e quasi tutte le varianti ricorrono ad un altro escamotage: dare partita vinta al bianco (che è svantaggiato dal giocare per secondo) quando questo succede. Una partita di Go, di conseguenza, può finire solo in uno di due modi: abbandono di un giocatore o "mutuo accordo", che si verifica quando entrambi i giocatori passano consecutivamente. Ho definito "mutuo accordo" questo evento dato che, di solito, quando un giocatore passa questo avviene perché la posizione sul goban non è più modificabile, e l'evidenza della cosa convince l'avversario ad accodarsi e terminare così la partita.
"Mutuo accordo" richiama il termine scacchistico "patta d'accordo"; ma, come si è appena detto, nel Go non c'è patta. Se facciamo finta che non ci sia neanche negli scacchi, anche in questo caso abbiamo due esiti possibili: abbandono di un giocatore o scacco matto. Purtroppo, mentre la posizione di scacco matto è facilmente e immediatamente riconoscibile anche da giocatori inesperti, non è altrettanto facile determinare chi ha vinto una partita di Go, in caso di "mutuo accordo". Più la partita è equilibrata, più diventa difficile, anche per giocatori esperti, calcolarne l'esito, dato che il conteggio dei punti, almeno sul goban 19x19, è una procedura abbastanza lunga e soggetta ad errori. La difficoltà, per giocatori di livello medio-basso, di comprendere al volo l'esito di una partita (e, per estensione, di valutare la posizione durante il gioco) è un limite insuperabile del Go; per fortuna la cosa viene compensata da altri aspetti positivi, primo fra tutti la semplicità delle regole (tutto questo sempre in relazione agli scacchi).
Non è questo, comunque, il problema dei "tempi supplementari". Questo nasce perché alla fine della partita rimangono quasi sempre sul goban molte pietre, di entrambi i colori, "morte" o - peggio - "moribonde", vale a dire quelle il cui status non è del tutto chiaro. In tutte le varianti delle regole bisogna stabilire, prima di procedere al calcolo del punteggio, quali pietre siano "morte" e quali "vive", e ovvi problemi nascono se i due giocatori non si trovano d'accordo: tale possibilità non è affatto teorica, ma è prevista esplicitamente dalla regole. Le quali regole, tuttavia, si limitano a specificare che un accordo va raggiunto in un modo o nell'altro. Il problema dei "tempi supplementari" è appunto questo: non c'è chiarezza su come vada risolto un disaccordo.
Una prima interpretazione delle regole prevede che i due giocatori risolvano la questione per mezzo di un'analisi post-partita. Ma, come ben sanno gli scacchisti, non è detto che questo sistema (specialmente se fra i due giocatori vi sono ruggini pregresse) serva a qualcosa. Per questo nei casi limite è previsto - orrore dal punto di vista scacchistico - l'intervento di una "commissione arbitrale" per risolvere il disaccordo (si veda "Counting Phase", wikipedia inglese). E' senz'altro preferibile una seconda e più diffusa interpretazione delle regole, che impone la ripresa della partita "sino a quando i due giocatori non trovano un accordo" (e quindi niente mosse rifatte, niente commenti e così via). Ma anche così non mancano i problemi: se torniamo a considerare la posizione del diagramma numero 1, potremmo immaginare che a fine partita il nero contesti al bianco lo status della pietra in J3, e che quindi il diagramma numero 2 altro non sia che la conseguenza della ripresa del gioco (i "tempi supplementari"). Ma, come si è visto, il nero potrebbe in questo modo capovolgere l'esito dell'incontro! Per impedire che ciò avvenga si può implementare (al limite solo nei "tempi supplementari") la regola che prevede la cessione di una pietra quando si passa; oppure si possono usare i "tempi supplementari" solo ai fini decisionali, ma non a quelli di calcolo del punteggio: in sostanza, tornando ai soliti diagrammi, la posizione finale sarebbe quella del diagramma numero 2, ma il punteggio verrebbe calcolato sul diagramma numero 1, evitando così che il nero possa ribaltare l'esito dell'incontro sfruttando astutamente (ma scorrettamente) la possibilità di passare.
Eppure, anche in quest'ultimo caso rimarrebbe un problema "etico": che succede se, nel corso dei "tempi supplementari" il bianco, magari innervosito dall'insistenza del nero, sbaglia e non riesce a dimostrare che la pietra in J3 è "morta"? Qualcuno direbbe: colpa sua. Ma se il bianco dev'essere punito per un errore commesso nei "tempi supplementari", perché calcolare il punteggio alla fine di "quelli regolamentari", quando invece la partita era vinta? E anche volendolo calcolare alla fine dei "supplementari" rimane comunque eticamente discutibile che questi possano capovolgere l'esito della partita, dato che il loro scopo non è, come nel calcio, uscire da una situazione di parità, quanto determinare quale giocatore abbia vinto. E pare ingiusto che il bianco, che il diagramma numero 1 indica vincitore, possa in qualche modo diventare lo sconfitto solo per avere incontrato un avversario (cocciuto) piuttosto che un altro (ragionevole). Meglio allora tornare alla prima interpretazione, quella dell'analisi post-partita. Solo che, come già si è detto, con questo sistema potrebbe essere impossibile trovare un accordo.
Che direbbe uno scacchista? Che tutto ciò è un vero incubo, e che la semplicità dello scacco matto rende gli scacchi cento, mille volte preferibili al Go. E c'è persino di peggio: diamo un'occhiata al diagramma numero 3, tratto dal solito libro di Kageyama, pagina 170. Persino l'autore ammette che this black group hardly looks as if it could die, but it can (pare difficile che il gruppo di pietre nere possa "morire", ma in effetti è così).
Ora, poiché il gruppo di pietre nere è "morto", una partita potrebbe facilmente terminare con questa situazione nell'angolo in basso a sinistra. Altrettanto facilmente potrebbe accadere che mentre il bianco sia convinto che le pietre nere siano "morte", il nero pensi il contrario, e quindi si debba ricorrere ad analisi o "tempi supplementari". Ma il peggio non è questo: la difficoltà della posizione è tale (solo un giocatore di livello medio-alto può risolverla) che entrambi i giocatori potrebbero erroneamente ritenere "vive" le pietre nere. Questo comporterebbe quasi certamente la vittoria del nero, quando invece è il bianco ad aver vinto! Avremmo quindi una partita decisa non già dalla posizione sul goban quanto dall'opinione dei giocatori: mai e poi mai uno scacchista potrebbe accettare una simile eventualità, che sarebbe anzi considerata come l'incubo peggiore in assoluto. Una cosa è abbandonare l'incontro prematuramente - decisione unilaterale - tutt'altra è vincere o perdere sulla base di opinioni condivise, per di più errate.
Certo, da un punto di vista "contemplativo" la cosa non è poi grave: avere opinioni errate fa parte della vita, e ogni giorno ne paghiamo le conseguenze. Scopo della vita (e del gioco) è quello di imparare e migliorarsi, e un esito come quello che ho appena ventilato non sarebbe affatto una tragedia. Lo è invece dal punto di vista "competitivo", che richiede vincitori certi, immuni da dubbi e che non facciano gridare al furto o allo scandalo. Pensiamo alle tante partite di calcio decise dagli errori arbitrali, specialmente quelli scoperti a posteriori, e chiediamoci se affidarsi all'opinione dei giocatori sia il modo migliore per decidere un vincitore. Dal punto di vista occidentale, la risposta è senz'altro negativa e una soluzione va trovata. Quale?
Una buona idea potrebbe essere quella di rendere obbligatori i "tempi supplementari", stabilendo che, una volta terminata la partita dopo due "passaggi" consecutivi, tutte le pietre rimaste sul goban siano da considerare vive. Le regole di calcolo del punteggio dovrebbero essere quelle cinesi, in modo da consentire ai due giocatori, una volta stabilizzata la posizione, di aggiungere pietre all'interno del loro territorio allo scopo di circondare e infine catturare le pietre "morte" senza che questo comporti alcuno svantaggio. Nella situazione del diagramma numero 3 i due giocatori continuerebbero ad aggiungere pietre sul goban sino alla cattura del gruppo di pietre nere o sino alla sua indiscutibile sopravvivenza. In questo secondo caso la sconfitta del Bianco sarebbe causata dai suoi errori, commessi nel corso del gioco, e non già dall'opinione dell'avversario, magari accettata passivamente. Può sembrare che la differenza, rispetto alla situazione precedente, sia trascurabile, ma da un punto di vista "competitivo" non lo è affatto: risolvere i problemi durante la partita è psicologicamente diverso (e molto più equo) dal risolverli "a posteriori", qualunque sia il metodo usato.
Bisogna poi considerare che la posizione finale, senza alcuna pietra "morta", sarebbe anche più comprensibile agli occhi degli spettatori e il calcolo del punteggio risulterebbe molto più semplice e rapido. Questo compenserebbe un finale di partita sostanzialmente inutile, almeno ad alti livelli, ma comunque destinato a durare al più un paio di minuti: poca cosa di fronte alla fine delle discussioni post-partita e - Dio ce ne scampi! - delle commissioni arbitrali.

3 - Il "Komi"

Proviamo a immaginare questa situazione: dopo avere esaminato i risultati delle più importanti gare sui 100 metri piani disputate negli ultimi cinquant'anni, il Comitato Olimpico si rende conto che gli atleti dalla pelle scura stanno diventando sempre più forti mentre quelli dalla pelle chiara sono ormai ridotti al ruolo di comparse. Si decide che la situazione non è giusta e che anche i bianchi devono avere le loro chances. Di conseguenza viene stabilito che, a partire dal giorno seguente, tutti gli atleti dalla pelle scura che parteciperanno a una gara sui 100 metri piani dovranno partire due metri più indietro rispetto agli altri. Passano vent'anni e si constata che, nonostante l'handicap, i neri vincono ancora più gare dei bianchi. Allora si decide di portare a 3 metri il loro handicap e in certe gare persino a 4. A questo punto i risultati si equilibrano. Tutti contenti? Ovviamente no. Una proposta simile, se mai fosse avanzata, sarebbe considerata il parto di una mente malata e respinta tra le risate generali.
Eppure - strano ma vero - così si fa nel Go, per quanto si tratti di un'idea relativamente recente, affermatasi nel dopoguerra dopo secoli (se non millenni) privi di questa complicazione. In cosa consiste il Komi? Nell'attribuzione di un certo numero di punti "gratuiti" al bianco per cercare di compensare il fatto che muove per secondo. E, come sempre nel Go, non c'è uniformità nella sua applicazione, né geograficamente né storicamente. In Giappone si usa un Komi da 6,5 punti (una volta era 5,5 e prima ancora 4,5), in Cina da 7,5. Altri paesi, come la Nuova Zelanda, usano un valore intero (il mezzo punto impedisce le patte). Una seconda occhiata alla tabella comparativa delle varie regole ci convincerà del caos che regna sovrano per quanto riguarda questa trovata.
Gli scacchisti potrebbero immaginare una situazione analoga negli scacchi: per bilanciare il vantaggio del bianco questo dovrebbe giocare senza il pedone "a". Dopo qualche anno i progressi nella teoria delle aperture gli ridarebbero un qualche vantaggio, e allora bisognerebbe aggravare il suo handicap: giocare senza il pedone "b" o addirittura quello "c". Come se non bastasse, in certi paesi si giocherebbe ancora senza il pedone "a". Che direbbero di questa situazione gli scacchisti? Direbbero che si tratta dell'ennesimo incubo, e che il rimedio è di gran lunga peggiore del male. E direbbero anche che per rimediare al vantaggio del bianco (che negli scacchi, fra l'altro, è ancora più grande di quello che il nero ha nel Go) basta e avanza il sistema attuale: alternare i colori in qualsiasi torneo o match. Non è la perfezione, ma è di gran lunga migliore di ogni tentativo di imporre un equilibrio artificiale agendo sulle regole del gioco.
Perché i goisti non si rendono conto della cosa? Sempre per via della mentalità "contemplativa": non si gioca per battere l'avversario ma per migliorare sé stessi, e non è giusto approfittare del vantaggio della prima mossa per conseguire la vittoria. Per questo è nato il Komi, e prima ancora il noto sistema di handicap, che consente a giocatori deboli di battersi alla pari contro giocatori forti. Per la ragione opposta - mentalità "competitiva" - gli handicap, relativamente diffusi nell'ottocento, sono stati progressivamente abbandonati dagli scacchisti. Oggi, giocare a scacchi ad handicap è considerato disonorevole e una vittoria ottenuta in questo modo sarebbe cosa di cui vergognarsi. La mentalità "competitiva" presuppone che l'esito di una partita debba essere determinato esclusivamente dalla forza dei due giocatori, e che l'inevitabile sconfitta del più debole sia puttosto un incentivo a migliorarsi. Discussioni come quella che si può leggere sulla nota "Sensei's library", in cui un giocatore vorrebbe giocare senza handicap e l'avversario cerca ostinatamente di convincerlo del contrario, sono quanto di più surreale possa immaginare uno scacchista.
Ma il problema del Komi non è limitato all'ambito filosofico. La sua introduzione rende problematica l'analisi di partite giocate con un Komi diverso (o senza Komi), dal momento che la sua presenza, come è ovvio, influenza le strategie di gioco. Pensiamo alla famosa partita di Go detta "Ear reddening". In questa partita il nero, dopo aver giocato non troppo bene in apertura, riuscì a capovolgere la situazione con una serie di mosse brilanti nel centro partita, tra cui la famosa "ear reddening", una mossa eccezionale dal punto di vista strategico. Ma alla fine vinse con "soli" due punti di vantaggio. Oggi, con qualsiasi Komi, avrebbe invece perso. Come giudicare tale partita? Dovremmo forse dire che le mosse giocate nel centro partita non sono poi così brillanti come ci sembravano? Effettivamente è proprio questo che dovremmo dire, e la mossa che dà il nome alla partita diventerebbe, ai nostri occhi, solo una benevola concessione fatta dal bianco al suo avversario. Giudicare la partita dal punto di vista del 1846 non sarebbe di alcuna utilità nel gioco moderno, e le strategie del nero non potrebbero fornirci alcun insegnamento. Come riporta giustamente wikipedia inglese, from the introduction of komi in most pro events, around 1950, Black's older methods had to be reconsidered, since White suddenly needed appreciably less (in pro terms) in secure area (da quando, intorno al 1950, il Komi fu introdotto nella maggior parte dei tornei per professionisti, il nero ha dovuto rivedere le sue vecchie strategie, poiché d'un tratto il bianco si è trovato ad avere bisogno di meno territorio).
In due parole: al nero non basta vincere. Deve stravincere. E quei giocatori che non sono così forti da sfruttare il vantaggio della prima mossa? Il Komi non è obbligatorio, direbbe qualcuno. Inoltre è raro che venga usato nelle partite ad handicap, che vedono appunto coinvolti i giocatori più deboli. Ma, ancora una volta, due o tre regole complicate non ne fanno una semplice: il Komi va abolito o, se proprio non se ne può fare a meno, va uniformato come tutte le altre regole. Il fatto che il nero abbia un certo vantaggio andrebbe accettato serenamente e compensato come fanno gli scacchisti: con l'alternanza dei colori in ogni torneo o match.

In conclusione

Sette consigli per favorire la diffusione del Go in Occidente:

  • Unificare le regole, tutte e, in particolare,
  • adottare il sistema cinese nel calcolo del punteggio
  • stabilire che a fine partita le pietre rimaste sul goban siano da considerare vive, tutte: niente analisi né ripresa del gioco
  • abolire il Komi
  • creare una classifica Elo globale che comprenda tutti i giocatori del mondo, professionisti inclusi
  • creare un campionato del mondo e relativi tornei di qualificazione come avviene negli scacchi
  • limitare l'uso dell'handicap alle partite non valide per le variazioni Elo (o di livello)
    Ma io credo che il problema sia un altro: si vuole davvero che il Go sfondi in Occidente? Ho già accennato che forse - sempre per via della solita mentalità "contemplativa" - non è questo ciò che vogliono i goisti, per quanto anche in Oriente i benefici sarebbero enormi. Purtroppo l'occasione che si presenta adesso, con gli scacchi in declino, è unica e irripetibile. E il giorno in cui i computer dovessero umiliare anche i professionisti del Go e dimostrare che anche le loro mosse sono lontane dalla pefezione, sarà troppo tardi.