Terminai di scrivere questo racconto lungo (tecnicamente si tratta di una "novella" o romanzo breve) nella primavera del 1995 (in precedenza ne avevo scritto solo i capitoli in "flashback"), grazie agli incoraggiamenti ricevuti da Gianni Sarti e Nadia Balanzoni - ai quali avevo accennato qualcosa della trama - e lo dedicai a loro.


SPES ULTIMA DEA

1

Era un uomo tranquillo, dall'aria serena e distaccata, quello che entrò nell'atrio della stazione di Roma Ostiense un tiepido pomeriggio di inizio primavera.
Giovane, ben curato e non privo di una certa eleganza nel vestire, si diresse senza esitare verso il tabellone che riportava gli orari del servizio ferroviario urbano, e lì rimase in silenzio per qualche istante, probabilmente intento a scegliere il treno più conveniente per i suoi spostamenti.
Nessun altro si trovava nell'atrio, in quel momento. A volte succedeva, specialmente nei pomeriggi come quello, tiepidi e con il cielo cosparso di nuvolette; pomeriggi che invitano a vagabondare o a starsene su qualche panchina con lo sguardo perso chissà dove e un piacevole torpore che ti avvolge ...
Forse per questo la stazione sembrava il posto più tranquillo e più deserto del mondo, con la luce del sole che entrava dalle grandi vetrate sul retro, e con i rumori del traffico più distanti del solito.
Forse per questo la voce del giovane che chiedeva a uno sportello qualsiasi il suo biglietto risuonò particolarmente chiara nel silenzio generale ...
"Roma Tiburtina, per favore."
Dall'altra parte del vetro il bigliettaio, un uomo di mezza età dall'aspetto insignificante, era impegnato a conversare con il suo collega dello sportello accanto. La presenza dello spesso vetro divisorio rendeva la conversazione confusa e distorta, cosicché quanto giungeva alle orecchie del giovane in attesa al di fuori era solo un suono incoerente, ma modulato in modo da creare un effetto bizzarro, forse analogo a quello degli ultimi film muti, la cui rudimentale colonna sonora non riportava ancora il parlato, ma solo il suono delle parole.
Comunque il bigliettaio smise di parlare e si girò verso il giovane in attesa dall'altra parte del bancone; tuttavia, dopo un breve istante di pausa, e nonostante il suo sguardo si fosse soffermato per un attimo sulla figura oltre il vetro, tornò a girarsi verso il collega riprendendo la conversazione di poco prima.
Al giovane non restò che ripetere, in tono più deciso, la sua richiesta.
E nuovamente il bigliettaio si girò verso di lui. Nuovamente il suo sguardo sembrò fissarsi sulla sua figura.
Lentamente la bocca del bigliettaio si aprì, fino a formare una 'O' quasi perfetta, e sembrò che l'uomo volesse chiedere, forse, delle spiegazioni al giovane in attesa.
Ma poi la 'O' si richiuse, e la conversazione precedente riprese una seconda volta, sempre con le stesse modalità di prima, sempre con quei suoni distorti e modulati, suoni pieni di mistero che chissà, in un altro momento avrebbero avuto anche un certo fascino, ma allora ...
Nessuno dei due bigliettai faceva caso al giovane, il quale, tuttavia, non mostrava segni né di impazienza, né tantomeno di collera. Sembrava piuttosto immerso in qualche pensiero, come se il problema di ottenere in qualche modo il suo biglietto non gli importasse, in fondo, più di tanto.
Tutto, nella stazione, sembrava immobile.
Infine, il giovane si riscosse, e allontanandosi dal vetro che lo separava dal bigliettaio, estrasse da una tasca interna del suo giaccone una pistola di grosso calibro, sulla cui punta un silenziatore faceva bella mostra di sé. Ancora nessuno nell'atrio. Ancora due bigliettai che parlavano fra di loro, immersi in una conversazione per tutti inintellegibile.
Il primo colpo mandò in frantumi il vetro divisorio.
Dopo il terzo colpo il bigliettaio giaceva in terra, rantolando.
Il quarto e il quinto colpo lo raggiunsero all'altezza del cuore, dopo che il giovane si era nuovamente avvicinato, sporgendosi tra quanto restava del vetro.
Il sesto e ultimo colpo fu alla testa.
Il secondo bigliettaio, che non si era mosso dalla sua sedia, né aveva gridato, alzò lentamente lo sguardo sul giovane, senza aprire bocca.
Questi, continuando a tenere la pistola con la destra, estrasse da un'altra tasca del giaccone dapprima un tesserino bianco e rosso, quindi un telefono cellulare.
"Spes", disse mostrando il tesserino.
Mentre il bigliettaio emetteva un sospiro appena percettibile, il giovane compose senza fretta un numero.
"Santilli. Sì, un carro attrezzi alla stazione di Roma Ostiense. E' uno dei bigliettai. No, nessun problema. Sì, datevi una mossa, vorrei tornare a casa."
Fine della chiamata. Il telefono tornò nella tasca.
Dal nulla cominciò ad apparire gente. Una, due, dieci persone.
Quasi tutte restarono a rispettosa distanza dal giovane e dalla sua pistola, anche se non mancava chi, alzandosi in punta di piedi, cercava di gettare uno sguardo oltre il bancone.
Il secondo bigliettaio era sempre seduto. E finalmente parlò, con una voce lamentosa e sgradevole, non più attutita dal vetro divisorio.
"Aveva avuto un esaurimento nervoso ..."
"Se stava così male doveva starsene a casa", fu la sola replica del giovane.
Dall'altra parte, di nuovo il silenzio.
"In ogni caso un esaurimento non rende stupidi."
Un fremito appena percettibile passò tra gli spettatori.
Il giovane si appoggiò al bancone, e assunse l'aria annoiata di chi si prepara ad una lunga attesa.
Quando più tardi un'ambulanza, con due grosse scritte rosse sui fianchi al posto della croce rossa, si fermò davanti alla stazione, questa aveva ripreso il suo aspetto più comune, con gente che andava e veniva, altra che faceva la fila alle biglietterie, e una piccola folla rimasta a osservare un cadavere e un uomo armato di pistola.
"Spes Ultima Dea" dicevano le scritte rosse sui fianchi dell'ambulanza.
L'uomo accanto al guidatore scese rapidamente dal suo posto, e si diresse verso le biglietterie, dove il giovane con la pistola lo aspettava con aria seccata.
"Era ora! Ma lo sai quant'è che ho chiamato?"
La folla si aprì per far passare il nuovo venuto.
"Calma, ragazzo. Voi siete tanti, noi siamo pochi. Ce n'ho altri tre là sopra, e mi sa che dovrò fare straordinario anche oggi, non so se rendo."
Il tono ironico non rendeva meno sgradevole l'individuo, basso, tarchiato, e con una pancia che sembrava volesse uscire dai vestiti da un momento all'altro. La tipica aria strafottente di chi sa sempre e solo il fatto suo dava a quell'uomo il colpo di grazia.
"Tu hai pure ragione, ma io me ne devo andare a casa ..."
"Eh già, voi fate sei ore al giorno, e poi chiuso, finito! Comodi, voi!"
Intanto l'autista dell'ambulanza era a sceso a sua volta, dopo aver parcheggiato, e si avvicinava rapidamente.
"Voi fate sei ore al giorno, e poi ve ne andate: noi invece i cadaveri mica li possiamo lasciare in giro, ragazzo. Lavoraccio, il nostro."
"T'ho detto che hai ragione, ma adesso pensaci tu. Io stacco."
L'autista dell'ambulanza scavalcò il bancone per inginocchiarsi vicino al cadavere, e fece sentire la sua voce per la prima volta.
"Ahò, bel lavoro! Ma come hai fatto a beccarlo?"
Una testa, o meglio una massa di capelli e barba incolti, riemerse da dietro quel bancone. Quel tipo poteva forse essere scambiato per un tossicodipendente, o nella migliore delle ipotesi per un vecchio figlio dei fiori, se non fosse stato per la fascia bianca e rossa che portava al braccio.
"Come ho fatto? Lo sai, no?"
"No, voglio dire ... che ti serviva il biglietto? Voi viaggiate gratis ..."
L'altro uomo si intromise nella discussione.
"Eh, ma lui, lui ce l'ha coi bigliettai ... lo fa apposta, ecco come."
Il giovane sembrava stanco.
"Lui viaggia gratis, ma qualche volta, zac! Così li becca. Sai quanti stupidi tra questa massa di sfaticati?"
Il giovane si staccò dal muro.
"Ragazzi, buon lavoro."
"Ahò, se vedi qualche capo, dillo, che per venire qui manco abbiamo scaricato quegli altri in macchina."
"Sì, ricordati!" fece l'autista, sempre dietro il bancone.
"Va bene, ragazzi. Arrivederci."
La piccola folla si aprì al passaggio del giovane, e questi uscì dalla stazione, non senza aver gettato uno sguardo minaccioso sul secondo bigliettaio, che non si era più mosso, né aveva aperto bocca dopo aver scambiato con lui quell'unica frase.
Ma l'uomo non incontrò il suo sguardo. Se ne stava a fissare il muro, e non sembrava neanche accorgersi dei movimenti che i due uomini scesi dall'ambulanza compivano intorno a lui.
Non si mosse neanche quando il cadavere del suo compagno fu sollevato sopra al bancone e portato via.

2

Fu così che Marco Santilli, 28 anni, una laurea in economia e commercio del tutto inutile fino a 18 mesi prima, prese la metropolitana e non il treno per ritornare a casa sua, non lontano dalla stazione Tiburtina. Una casa non diversa da tante altre, ricavata dentro uno dei tanti palazzoni che costeggiavano la via, ma che per lui significava un rifugio sicuro, un'oasi di tranquillità, un riparo da quel mondo esterno, quel mondo che pullulava di stupidi.
Per fortuna non era solo ... per fortuna tanti come lui si davano da fare per liberare il paese da quel flagello. Migliaia di agenti, che avevano nelle loro mani, nelle loro pistole, la possibilità di rendere migliore il domani.
La possibilità di costruire un futuro sereno, una società in cui vivere finalmente in pace.
Seduto nel vagone della metro che lo portava verso casa, Marco ripensò con un brivido a 'prima', quando le cose andavano diversamente, quando gli stupidi erano liberi di girare impunemente, vanificando gli sforzi di quanti si davano da fare per il bene del paese, consumando assurdamente il tempo e le risorse di tutti gli altri, riuscendo a far sentire inutili tutti quelli con cui avevano a che fare ...
I pensieri di Marco si tuffarono nel passato, quando qualcosa era cominciato a cambiare ...
Tre anni e mezzo prima, durante un autunno particolarmente piovoso, il Messaggero di Roma aveva pubblicato una lettera; una lettera forse un po' strana, ma pur sempre in linea con tante altre che apparivano nella pagina delle lettere di quel giornale ... lettere di lamentela, di protesta, lettere che talvolta esprimevano fastidio, rabbia, rancore.
"... mi sembra che la stupidità della gente aumenti di continuo", diceva la lettera, "non faccio che imbattermi in gente che non guarda dove cammina, che attraversa la strada senza badare a nulla, in gente che se gli chiedi un'informazione rimane con la bocca aperta, in altri che ti si fermano davanti senza una ragione. E sono dappertutto, nelle banche, nelle scuole, negli uffici, sugli autobus; sono sempre in mezzo ai piedi, e Dio solo sa quanto tempo mi fanno perdere. Ma non si potrebbe fare qualcosa?"
La lettera non era neanche firmata, e in effetti non era particolarmente strana; tuttavia, dopo che fu pubblicata, arrivarono al Messaggero altre lettere dello stesso tenore; tutte quante lamentavano i problemi causati dalla "crescente stupidità".
Quando ne arrivò una particolarmente accesa, il giornale decise di pubblicarla a sua volta; questa lettera finiva con la frase "E' uno scandalo!". Una frase fatta, certo, ma il fatto che fosse apparsa una seconda lettera sull'argomento incoraggiò altra gente a scrivere. Altre lettere arrivarono al giornale; qualcuna chiedeva apertamente "severi provvedimenti"; cominciarono ad arrivare in redazione anche delle telefonate, e qualcuno cominciò a scrivere anche ad altri giornali della capitale.
Il Messaggero pubblicò una terza lettera, poi una quarta; anche il Tempo ne pubblicò una, particolarmente 'vivace'. Tra le altre affermazioni vi si poteva anche leggere che "senza tutta questa gente stupida le cose andrebbero molto meglio".
Lettere e telefonate si moltiplicarono; ormai non era insolito che la redazione del Messaggero ne ricevesse anche 5 o 6 al giorno, e il loro numero aumentava sempre, lentamente ma costantemente.
Un mese dopo l'arrivo della prima lettera, sul Messaggero comparve un breve articolo sulla vicenda, poco più di un trafiletto non firmato; con una certa ironia l'anonimo redattore scriveva "... forse un'ondata di stupidità si è abbattuta sulla capitale, o forse la gente è più nervosa del solito? ... sono più stupidi quelli che non sanno come usare i biglietti ai varchi della metropolitana, o quelli che scrivono lamentandosi del fatto?"
La reazione della gente a questo articolo fu immediata. Telefonate e lettere indignate arrivarono a tutti i giornali di Roma; anche i giornali di Milano, Torino, Napoli cominciarono a ricevere lettere di denuncia.
"Come è possibile", ruggiva al telefono del Messaggero un'anziana signora, "prendersi gioco di un problema così grave? Ma sapete il tempo che certa gente mi fa perdere ogni giorno? Perché invece di fare dell'ironia non chiedete severi provvedimenti?".
Questo era più o meno il tipo di telefonate che i redattori sbigottiti ascoltavano praticamente ogni giorno.
Qualche giorno dopo il Messaggero corresse leggermente il tiro con un nuovo articolo, questa volta privo di ironia: "... indubbiamente un problema esiste: non è più possibile ignorare che un gran numero di persone scrive o telefona, e che a volte si ha l'impressione che i 'danni' provocati dalla stupidità collettiva siano pari a quelli causati dal traffico intasato o dai disservizi delle USL ..."; e verso la fine dell'articolo: "... lamentarsi e chiedere provvedimenti non serve. Quello che ci vuole è una maggiore collaborazione tra la gente. Le persone che hanno delle difficoltà vanno aiutate: probabilmente non sono veramente stupide, ma solo un po' ignoranti."
Ma lettere e telefonate aumentarono ancora: ormai ne arrivavano decine ogni giorno, e tutte erano ricche di particolari sui danni provocati dagli 'stupidi'; inoltre, in risposta all'articolo del Messaggero, praticamente tutti affermavano che "oggi si può essere ignoranti solo per scelta, e quindi anche l'ignoranza è sintomo di stupidità", o anche che "gli stupidi non vogliono essere aiutati". Qualcuno poi scriveva: "Se noi aiutiamo gli stupidi, chi aiuta noi?". Al Messaggero non sapevano più che pesci pigliare. Stupidità dilagante o paranoia collettiva?
Intanto il Tempo, fiutato il vento favorevole, decise di sfruttare la situazione per portarsi 'all'avanguardia': lo spazio dedicato alle lettere di protesta fu aumentato sensibilmente, numerosi servizi sulla vicenda furono pubblicati in cronaca, corredati da foto e interviste volanti; e il tenore degli articoli, soprattutto, non era per niente sfavorevole agli 'intelligenti'.
Nel giro di pochi giorni i due quotidiani erano alla pari in quanto a lettere e telefonate ricevute. E il loro numero aumentava sempre.
Ben presto l'argomento cominciò a coinvolgere anche gli altri giornali della capitale; man mano che i giorni passavano il Tempo pubblicava lettere sempre più violente e infuocate, e articoli sempre più accesi e polemici ... in breve il giornale cominciò ad accusare la giunta progressista che all'epoca amministrava Roma di avere non poche responsabilità in quanto accadeva ... vale a dire nell'ondata di stupidità dilagante.
La Repubblica scese in campo a sua volta, prendendo apertamente posizione contro il Tempo e coloro che protestavano sempre più vivacemente, definendoli "vecchi oligarchi che si rifiutano di credere nell'egualitarismo, e sfogano il loro rancore prendendosela con gli emarginati".
Il Messaggero, per il momento, rimaneva neutrale.
Le continue polemiche tra i giornali romani portarono a un ulteriore aumento delle lettere e delle telefonate alle varie redazioni. In certe ore del giorno il centralino del Tempo era regolarmente intasato dalle chiamate, e tutte, nonostante gli articoli ancora impostati a una certa prudenza, traboccavano di rancore, se non di odio, verso gli stupidi.
La gente chiedeva ormai, senza alcun ritegno, provvedimenti "severissimi" contro di loro, e molti si spingevano fino a promettere il loro voto al primo partito che si fosse schierato a favore degli "intelligenti".
Quando si cominciò ad andare sul concreto, a chiedere cioè alla gente che genere di provvedimenti avrebbero dovuto essere presi, si vide che la maggior parte delle persone pensava che arrestare o internare in qualche luogo non ben definito gli stupidi fosse la soluzione ideale; ma non mancava chi faceva notare, in tono più o meno allusivo, cose del tipo "secoli fa gli handicappati venivano soppressi, giusto? Perché non fare lo stesso con gli stupidi?".
Poiché la posizione della Repubblica sull'argomento era sempre la stessa, presto il tenore dei messaggi che arrivavano a quel giornale cominciò a cambiare: insulti e minacce presero a poco a poco il posto delle consuete proteste. "Siete a favore degli stupidi", "difendete la feccia della società", questi erano gli argomenti più ricorrenti che venivano scagliati contro i redattori come delle maledizioni bibliche.
Nel giro di qualche settimana le vendite della Repubblica crollarono, a dispetto degli inserti, dei gadget e dei concorsi a premi; viceversa le vendite del Tempo salirono vertiginosamente, e al Messaggero non restò che abbandonare la sua posizione di neutralità, schierandosi ovviamente dalla parte degli 'intelligenti', per non perdere il tradizionale primato di giornale più letto nella capitale.
Quando fu chiaro che le vendite dei giornali romani subivano grosse variazioni, tutti i quotidiani, locali e nazionali, cominciarono ad occuparsi seriamente della questione.
In primavera, circa 5 mesi dopo la pubblicazione della prima lettera sul Messaggero, il 'caso' arrivò in televisione. Fu un grosso telegiornale privato, nell'edizione di metà serata, ad occuparsi del problema. Due psicologi furono intervistati, e uno di loro, l'anziano professore milanese Roberto Chiarenza, noto nell'ambiente per la sua aperta avversione alle teorie junghiane, sostenne, fra le altre cose, "... coloro che scrivono ai giornali evidentemente non hanno tutti i torti. Il problema esiste, e ignorarlo è la cosa sbagliata".
Quanto bastava per far salire ancora, se possibile, quella che la Repubblica chiamava sarcasticamente 'la febbre dell'intelligenza'.
Pochi giorni dopo fu la RAI a trasmettere un servizio analogo; altri psicologi, stavolta tutti 'ragionevoli', comparvero a cercare di spiegare quella che veniva considerata una specie di mania passeggera, poco più di una moda.
Pensare che c'era stato un tempo in cui Chiarenza, l'uomo che forse sarebbe diventato presto Presidente della Repubblica, era praticamente isolato!
Naturalmente, poiché l'importanza delle televisioni era altra cosa rispetto a quella dei giornali, il problema della stupidità crescente assunse rilevanza nazionale, uscendo dall'ambito delle grandi città e delle semplici proteste per diventare qualcosa di realmente grave. Tutti i quotidiani, tutti i rotocalchi, tutte le televisioni, pubbliche e private, vennero subissati da un'ondata di chiamate, di lettere, tutte dello stesso tenore; alla denuncia di casi di stupidità si accompagnava sempre la richiesta di provvedimenti che potessero liberare il paese da questo flagello. Addirittura pareva che gli altri problemi che da sempre tormentavano il paese, la disoccupazione, la criminalità, la corruzione, tutto questo sembrava spesso e volentieri passare in secondo piano.
Ed erano passati 6 mesi soltanto da quando tutto era cominciato, con una semplice lettera a un giornale.
Verso Maggio, durante una seduta del consiglio comunale di Roma, un consigliere del polo moderato chiese apertamente al sindaco quali provvedimenti la giunta intendesse prendere per arginare l'ondata di stupidità, almeno lì nella capitale ... zittito prontamente e facilmente, tra l'imbarazzo dei suoi stessi compagni di partito, il consigliere dovette rinunciare, per il momento, a una possibile politicizzazione del problema. Ma anche se questo primo tentativo di portare davanti a qualche autorità il problema degli stupidi era fallito, giornali e televisioni ripresero subito l'episodio. E così si poté leggere sul Tempo di quanto la giunta progressista fosse arrogante e lontanissima dai "veri problemi della città", mentre la Repubblica accusava i moderati di servirsi del cosiddetto 'ideale intelligente' a fini politici. Cosa del resto vera.
Polemica chiamò polemica. L'esaltazione della gente raggiunge l'apice - o almeno così si credeva. Tre giorni dopo l'episodio del consiglio comunale la protesta degli 'intelligenti' diventò qualcosa di tangibile.
Alla stazione Termini un militare, che a quanto pareva non riusciva a far capire a un bigliettaio dove intendesse andare, fu aggredito e picchiato da una piccola folla, al grido di "dagli allo stupido", tra l'indifferenza generale di tutti i presenti.
Untori? No, stupidi. E tuttavia molti sperarono, si convinsero da soli, quasi, che l'episodio, proprio perché gravissimo, avesse il potere di calmare gli animi, di far ragionare i cosiddetti 'intelligenti'.
Invece giustizia sommaria chiamò altra giustizia. Episodi analoghi si moltiplicarono rapidamente in tutto il paese, sempre ingigantiti dai giornali, sempre più spesso utilizzati a fini scopertamente politici.
In nessun caso i colpevoli furono identificati, e tantomeno arrestati. E la ragione era chiara: l'opinione pubblica appoggiava apertamente i giustizieri, approvava l'ondata di violenza contro gli stupidi. "Le autorità se ne fregano? Dobbiamo pensarci da soli". Questo era il sunto delle lettere che in quel periodo arrivavano ai giornali.
Sotto la spinta di molti dei suoi uomini, il polo moderato cominciò a cavalcare la 'tigre dell'intelligenza'. Le interrogazioni nei consigli comunali di Roma e Milano cominciarono a fioccare, dapprima in sordina, in seguito con sicurezza e risonanza sempre crescenti. Dopo i primi battibecchi i consiglieri progressisti, preoccupati dalla piega che andavano prendendo gli eventi, scelsero di trincerarsi dietro una linea attendista, fatta di silenzi, di rinvii, talvolta di vuote chiacchiere o mozioni vaghe e nebulose.
Tuttavia la maggior parte dei giornali era ormai schierata apertamente dalla parte degli 'intelligenti', anche se in questo contava non poco la paura di veder crollare le vendite, come accadeva infatti a quelli schierati dalla parte degli stupidi; più distaccate si mantenevano le televisioni, da sempre abituate ad atteggiamenti più ambigui, oltre che imbrigliate da tempo da una serie di leggi create apposta per garantirne la neutralità. Anche se questa neutralità avrebbe dovuto riguardare più che altro le questioni politiche.
Ma il problema non stava appunto diventando sempre più un fatto politico? Dappertutto fiorivano convegni e tavole rotonde sul problema; psicologi e sociologi avevano abbandonato la prudenza, l'incertezza che avevano sfoggiato nei primi tempi, e si erano divisi in due fazioni: quella 'intelligente', il cui leader riconosciuto era rapidamente diventato il professor Chiarenza, ogni giorno più bellicoso; e quella 'degli stupidi', senza capi carismatici, ma in compenso ricca al suo interno di correnti e divisioni.

3

Nonostante la primavera continuasse ad avanzare prepotentemente, nonostante gli alberi fossero ogni giorno più verdi, e le notti più corte, quella mattina era grigia, grigia come l'umore di Marco, che passeggiava stancamente lungo via Tiburtina, non lontano da casa sua.
Erano due giorni che non riusciva più a trovare uno stupido, due giorni di magra, che per un agente come lui, con una media di 1,31 stupidi al giorno, era quasi una vergogna.
L'ora di pranzo cominciava ad avvicinarsi, e Marco aveva battuto tutto il suo quartiere in lungo e in largo. Forse era il caso di prendere un autobus e cambiare zona.
O forse era lui un po' negligente. Nella sua zona dovevano esserci molti più stupidi di quanti ne avesse trovati finora, le statistiche parlavano chiaro. Come poteva sperare in una promozione, se non riusciva a far tornare i conti? Già, quella famosa promozione che era stata promessa un anno e mezzo prima, quando lui e tutti gli altri erano stati assunti. I migliori sarebbero diventati presto ispettori, era stata la promessa. Ispettori. Non se ne era visto neanche uno, fino a quel momento; e sì che le voci giravano ...
Una promozione gli ci sarebbe proprio voluta. Vivere da single era costoso, e anche se il suo stipendio era più che sufficiente a permettergli un buon tenore di vita, non gli sarebbe dispiaciuto trovare un appartamento migliore di quello in cui viveva ... non che fosse brutto, ma c'era di meglio in giro; e in fondo era pur sempre un monocamere. Un po' di spazio in più ...
Dall'altro lato della strada una persona attirò la sua attenzione. Era un tipo della sua età, o forse con qualche anno in più. L'aria sfatta, gli abiti sporchi. Un tossico, probabilmente. Un tossico in attesa di un autobus, visto che stava in piedi sotto una fermata.
Marco attraversò la strada. Senza fretta. Senza degnare di uno sguardo il gruppo di persone dall'aria rassegnata in mezzo al quale si trovava il presunto tossico, si diresse verso un negozio poco distante, e cominciò a scrutarne le vetrine con la massima attenzione.
Non diverso da tanti altri che vendevano giacche e pantaloni senza particolari pretese, era il tipo di negozio che a Marco non sarebbe mai interessato, ma in quel momento ciò che a lui importava era la possibilità di osservare la sua futura vittima senza farsi notare.
L'immagine che si rifletteva sulla vetrina confermava i suoi sospetti. Sì, probabilmente era un tossico, e una volta salito su un autobus avrebbe cominciato a importunare la gente chiedendo soldi con motivazioni ridicole. Marco odiava i tossici. Il solo fatto che lo fossero non era forse segno di stupidità? Fosse stato per lui, non ci sarebbe stato neanche bisogno dell'accertamento. La sua mano si avvicinò impercettibilmente alla pistola ... Ma c'era un regolamento da rispettare. Era il caso di attaccare discorso con quell'individuo? Non era facile familiarizzare con uno sconosciuto, non era come parlare con qualcuno dietro un bancone o uno sportello, uno che sta lì apposta per parlare con la gente.
Forse poteva chiedergli da accendere ... Marco non fumava, ma un piccolo sforzo si poteva anche fare. O forse ... all'improvviso i suoi occhi incontrarono quelli della sua futura vittima, lì, sulla vetrina.
L'altro distolse subito lo sguardo.
Marco cercò di guardare qualcosa dentro il negozio, ma non appena ebbe riportato lo sguardo sul tossico, vide che questi lo stava fissando a sua volta. E cominciava a dare piccoli, ma ben visibili segni di nervosismo.
Un autobus si avvicinò.
Che fare? Allontanarsi e poi tornare? Far finta di aspettare qualcosa?
Attaccare discorso? Il punto era che non avrebbe dovuto insospettirsi ...
L'autobus si fermò. Le porte si aprirono.
Il tossico fu il primo a infilarsi dentro, e scomparve subito alla vista di Marco, coperto dalle altre persone entrate dopo di lui.
L'autobus ripartì.
Trattendendo a stento un gesto di stizza, Marco riprese a camminare. Non era uno stupido, dopotutto. Gli stupidi non si accorgevano mai degli agenti. Se questo se n'era accorto e aveva avuto paura, non doveva essere così stupido.
Dannazione. Un'altra occasione mancata.
Quasi mezzogiorno. Marco si infilò nella prima traversa incontrata lungo la strada, quasi seguendo il marciapiede, lasciando che fossero i suoi passi a portare lui, sperando quasi che lo guidassero da soli verso un'altra possibile vittima.
Si sentiva frustrato. Quasi si pentiva di non essere salito a sua volta su quell'autobus. Certo, il tossico non era stupido, dopotutto, ma in fondo sui mezzi pubblici se ne potevano trovare tanti altri.
Doveva pensarci prima.
Che fare? Poteva entrare in qualche negozio. Spesso tra i commessi, e non di rado fra gli stessi proprietari, si trovavano dei veri imbecilli.
Ma aveva già passato al setaccio tutti i negozi della sua zona, ed eliminato gli stupidi che vi lavoravano; e molti dei loro clienti. Certo, poteva sempre trovare qualche commesso nuovo, ma le possibilità erano basse. No, forse era meglio prendere un mezzo qualunque e cambiare zona.
Stava quasi per ritornare su via Tiburtina, alla fermata dell'autobus, quando notò, poco più avanti, due signore di mezza età che camminavano lentamente, parlottando a bassa voce. Venivano verso di lui.
La stupidità dipinta, anzi scolpita su quei volti, era inequivocabile. Trattenendo a stento un sorriso Marco si affrettò a portarsi sul marciapiede opposto; non appena le due donne ebbero percorso una cinquantina di metri, tornò sull'altro lato della strada, e mantendendosi alle loro spalle, cominciò a seguirle, restando sempre a qualche passo di distanza.
Una cosa che aveva notato subito era l'aspetto molto diverso di quelle donne; se una delle due era chiaramente una tardona, pesantemente truccata, vestita in modo appariscente, e certamente ossigenata, l'altra aveva un'aria dimessa, con indosso degli abiti grigi informi e anonimi, e un paio di occhiali dalla forma ridicola che rendevano ancora più brutto un volto animalesco.
Sembrava strano che due persone così diverse potessero essere amiche; Marco era propenso a pensare che la donna in grigio fosse piuttosto la domestica dell'altra, ma ben presto, dai brani di conversazione che riusciva a captare, si rese conto che fra di loro vi era abbastanza confidenza da poter escludere quella possibilità.
Tutto sommato potevano benissimo essere due impiegate statali, due colleghe che invece di trovarsi in ufficio a lavorare se la prendevano comoda. Troppo comoda. E di cosa parlavano, poi? Marco capì ben presto che, come in certe pubblicità, il loro argomento di conversazione era la pulizia del bucato.
Disgustoso. Grottesco. Per di più quel dialogo sembrava una parodia di quelli che passavano di regola in televisione, fatto di frasi smozzicate, di inciampi, di modi di dire dialettali, con una povertà di vocaboli e di sintassi che da sola bastava a dare la nausea a Marco, abituato dai suoi studi ad esprimersi in tutt'altra maniera. E l'aspetto delle due donne, poi! Anche quello sembrava una parodia della pubblicità. Nulla a che vedere con le signore giovani ed eleganti che discutevano quel tipo di problemi.
Le due donne svoltarono a destra, dirigendosi direttamente verso via Tiburtina. Nonostante fossero seguite a breve distanza, nessuna aveva dato segno di accorgersi della cosa; pure l'andatura di Marco era abbastanza strana, dal momento che era costretto a fermarsi spesso, fingendo di guardare le vetrine dei negozi o i citofoni dei portoni, per non avvicinarsi troppo.
Ma anche questo era un segno di stupidità.
L'argomento di conversazione si spostò sulla difficoltà di fare asciugare il bucato, dato il tempo incerto degli ultimi giorni. Marco si chiedeva se non vi fossero già elementi sufficienti per eliminare entrambe le donne, e ancora una volta la sua mano si avvicinò alla pistola ... ma quello che aveva sentito non bastava. Lo sapeva benissimo.
Entrambe le donne gli erano ugualmente odiose; pur se totalmente diverse, erano tutte e due agli antipodi dei suoi ideali femminili. Decidere chi eliminare per prima poteva diventare un piccolo problema.
Ma una volta raggiunta via Tiburtina, la tardona si staccò improvvisamente dall'amica, e fatto cenno a un taxi che passava in quel momento, vi si infilò rapidamente.
"Ci sentiamo domani", si sentì da dentro il taxi che ripartiva, mentre una mano si sporgeva dal finestrino per salutare.
"Pure stronza", pensò Marco. La tentazione di fermare il taxi in qualche modo ed eliminare immediatamente la donna era forte ... ma la macchina scomparve rapidamente nel traffico di via Tiburtina.
L'altra donna stava continuando a piedi. Marco riprese a seguirla.
Se l'altra aveva preso un taxi, e questa no, di certo non gli sarebbe sfuggita; forse abitava in zona, forse avrebbe preso un autobus. Comunque non l'avrebbe mollata fino all'accertamento della sua stupidità.
Non lontano dalla Standa la donna svoltò a destra, e dopo un centinaio di metri si fermò davanti a un portone. Anonimo come il palazzo di otto piani al quale apparteneva. Da lontano, Marco la vide estrarre goffamente dalla borsetta un mazzo di chiavi, e dopo qualche tentativo, altrettanto goffo, la vide aprire il portone, e scomparire nel palazzo.
E ora? Seguire la donna fin dentro casa? No, non andava. Ci voleva una scusa, un sistema per poter scambiare qualche parola con lei. E in quel momento non gli veniva nulla in mente.
Tra l'altro non sapeva neanche il suo nome: se anche avesse voluto citofonarle fingendosi un postino o un rappresentante non avrebbe saputo a chi rivolgersi. Rassegnato, Marco tornò indietro, verso via Tiburtina. Il suo lavoro poteva diventare un'esperienza frustrante, a volte. Tuttavia, rifletté fermandosi un momento, almeno sapeva dove abitava quella donna. Poteva tornarci, sperando di incontrarla.
Si voltò per un attimo, lanciando un ultimo sguardo verso quel portone. Sì, sarebbe tornato, avrebbe aspettato tutto il giorno, se necessario.
Ma non se la sarebbe lasciata sfuggire. Avrebbe scommesso qualunque cifra che non si sbagliava, che quella donna era davvero una stupida, e del tipo peggiore.
Con un ultimo sospiro, Marco si tuffò di nuovo in mezzo alla folla che popolava via Tiburtina.
Più tardi, mentre mangiava un panino da McDonald, riuscì finalmente ad individuare ed eliminare uno stupido, un vecchio che non riusciva a comprendere come mai in quel posto si dovesse pagare prima di mangiare.
Una giornata salvata in extremis.

4

Lettere ai giornali, dibattiti in televisione, e soprattutto aggressioni agli stupidi: quando arrivò l'estate, furono in molti a sperare che i suoi esodi, le sue leggi ferree che sempre avevano imposto svaghi e distrazioni ad ogni costo, potessero finalmente attenuare, se non spegnere del tutto, il furore degli 'intelligenti'.
Speranza vana. Anche nei piccoli centri, fino ad allora rimasti ai margini del fenomeno, quasi immuni dalle violenze ogni giorno più frequenti, cominciarono le cacce allo stupido; né tali episodi cessarono nelle grandi città.
I motivi di tutto ciò furono presto chiariti, ancora una volta, dalle lettere ai giornali; lettere come quella di un geometra napoletano, apparsa sulla Repubblica ai primi di Agosto: "... con l'arrivo dell'estate gli stupidi si spostano in massa e continuano a perseguitarmi. Vado in vacanza non solo per riposarmi, ma anche per sfuggirgli. Ma non c'è niente da fare, dovunque io vada me li ritrovo tra i piedi. Come se non bastasse, ne trovo anche degli altri; stupidi che vengono da altre parti d'Italia, stupidi locali. Queste non sono vacanze."
Evidentemente molti stupidi vivevano anche nei luoghi di villeggiatura, o, peggio, vi si trasferivano dalle città.
Poiché gli episodi di violenza continuarono tutta l'estate, qualcuno, facendo dell'ironia, parlò di un Ferragosto particolarmente caldo ... ma il peggio doveva ancora venire.
Verso i primi di Settembre, esaurite le ferie, le città si ripopolarono; e gli episodi di violenza, sempre più gravi, aumentarono di molto. Alla periferia di Milano, una baracca dove abitava un presunto stupido venne incendiata da una folla inferocita; lo stupido, salvo per miracolo, riportò comunque ustioni di secondo e terzo grado su tutto il corpo. Ustioni che non sarebbero più guarite.
In quei giorni comparve sulla Repubblica una lettera dello stesso geometra napoletano: "... dopo una vacanza angosciante, torno in città e ricomincio a lavorare; come se questo non bastasse, mi ritrovo circondato dagli stupidi. Non se ne può più. Se non ci pensa il governo, ci penseremo noi."
Detto fatto: il 10 Settembre nasceva a Roma, per opera di alcuni psicologi e molti semplici cittadini, il Movimento per la difesa dell'Intelligenza; scopo dichiarato, risolvere definitivamente il problema della stupidità; metodi per arrivare allo scopo, per il momento nessuno.
Gli ambienti politici accolsero la nascita del Movimento con profondo scetticismo; ma questo non migliorò certo la situazione, anzi. Pochi giorni dopo accadde quello che molti temevano da tempo.
Roma, posta centrale in piazza S. Silvestro, mattina; tanta gente in coda agli sportelli dei conti correnti, e in testa ad una di queste file una persona, una donna anziana che discute con un'impiegata. A quanto pare non riesce proprio a capire come si effettua un banale versamento.
E poi, a un tratto, l'impiegata che alza la voce, si spazientisce, comincia a gridare: "... non ne posso più di tutta questa stupidità ..."; e come a un segnale, tutta la gente all'interno dell'ufficio che si lancia sulla stupida, la massacra a pugni, a calci, addirittura a morsi.
Quando la polizia arrivò a piazza S. Silvestro, un quarto d'ora dopo, un cadavere martoriato giaceva sul pavimento dell'ufficio postale. Un ufficio completamente deserto, abbandonato da tutti, anche dagli impiegati.
Sui giornali si sprecarono i titoli cubitali. Non mancarono neanche le edizioni straordinarie di qualche TG. Era dai tempi del terrorismo che non veniva dato tanto spazio a un singolo omicidio.
A questo punto alle polemiche ormai consuete, alle tavole rotonde, ai dibattiti nei luoghi e nei posti più diversi, si aggiunsero le interrogazioni parlamentari. Due, di segno opposto.
Se da una parte un deputato progressista chiedeva apertamente al governo provvedimenti urgenti "per fermare l'ondata di follia che sta travolgendo il paese", dall'altra un moderato chiedeva invece "cosa si vuol fare per arginare l'ondata di stupidità che paralizza le forze migliori della nazione".
Era un periodo in cui il governo aveva ancora le idee chiare, e non certo nella direzione voluta dagli 'intelligenti'. Era comunque un governo progressista. Rispondendo brevemente e con decisione ad entrambe le interrogazioni, il ministro dell'Interno dichiarava da un lato che "mai sarebbe stata tollerata l'anarchia", e dall'altro che "meno che mai il governo si sarebbe fatto imporre qualcosa da movimenti di piazza, almeno nella più totale mancanza di dati e fatti concreti".
E forse quest'ultima affermazione lasciava intravedere, tra le righe, una posizione del tipo "provate che la stupidità esiste, e si vedrà".
In effetti, non è che i membri del governo, all'epoca, fossero realmente preoccupati dal problema; anzi, i più cinici erano quasi divertiti dalla situazione che si stava creando, ed erano fermamente convinti che la follia, oltre che collettiva, fosse anche passeggera.
Naturalmente non era così. Quasi in risposta alle dichiarazioni del ministro, gli episodi di violenza aumentarono ancora. Il 18 Settembre, a Milano, un altro morto. Il 20, a Roma, un altro ancora; tenere il conto dei feriti stava diventando difficile.
Il 22 Settembre, 2 morti, a Roma e a Napoli. Il primo Ottobre i morti erano già 14, e la situazione sembrava prossima a sfuggire di mano alle autorità. La stessa sera, in una conferenza stampa tra le più affollate degli ultimi anni, il Presidente del Consiglio dichiarava solennemente che tutti i provvedimenti necessari a identificare ed arrestare "i responsabili di questi odiosi delitti" sarebbero stati presi con la massima urgenza; e che certamente, come già era accaduto col terrorismo e con la mafia, la "battaglia dello Stato" sarebbe stata vinta, "senza alcun dubbio".
Tutto vano. Nonostante il moltiplicarsi degli omicidi, non si riuscì mai ad arrestare uno solo dei responsabili.
Intanto il Movimento per la difesa dell'Intelligenza si dava da fare, superata la fase organizzativa; se il suo presidente era un giovane psicologo fiorentino allievo di Chiarenza, il professore milanese ne era il leader spirituale; come Deng nella Cina del dopo Mao, secondo i suoi seguaci, o come Khomeini, a detta dei suoi nemici.
Il 6 Ottobre il Movimento organizzò a Roma una manifestazione: scopo dichiarato, spingere il governo a prendere "severi provvedimenti contro la stupidità".
La manifestazione riuscì bene. "Imponente", fu definita da tutti i giornali. Sul numero dei partecipanti, come al solito, le cifre discordavano. Si andava dalle duecentomila persone sbandierate dal Movimento alle trentamila delle consuete fonti del ministero dell'Interno. Alcuni giornali, come il Tempo, non mancarono di ricordare con ironia differenze analoghe riscontrate in passato, per esempio nella Polonia del generale Jaruzelski.
In ogni caso la posizione del governo restò la stessa; il ministro dell'Interno, e in seguito nuovamente il Presidente del Consiglio, ribadirono punto per punto tutte le precedenti dichiarazioni.
Ma di fronte all'estendersi, al moltiplicarsi degli omicidi, che ormai si succedevano al ritmo di uno o due ogni giorno, i proclami del governo assomigliavano sempre più alle 'grida' manzoniane: stessi toni bellicosi, ma stessa desolante, totale, mancanza di effetti.
Finché il 15 Ottobre il Movimento per la difesa dell'Intelligenza, constatata la sordità del governo a tutte le sue proposte, annunciava ufficialmente la propria, diretta partecipazione alle elezioni del Maggio successivo.
E allora il mondo politico cadde in preda al panico, perché il Movimento, questo lo sapevano tutti, aveva rapidamente acquistato un consenso enorme, e spostare anche pochi voti poteva significare la sconfitta elettorale, la perdita del posto in Parlamento guadagnato magari con estenuanti campagne porta a porta. Specialmente i progressisti, che avevano lavorato duramente per vincere le ultime elezioni, mostrarono evidenti segni di nervosismo, con dichiarazioni confuse e spesso contraddittorie; anche membri del governo cominciarono ad assumere un atteggiamento più ambiguo, più sfumato.
Questi primi segnali di cedimento resero il Movimento più bellicoso, più deciso nelle sue richieste; e intanto gli omicidi continuavano senza soste: ormai bastavano i motivi più futili, una persona urtata, un'indicazione sbagliata, per scatenare la furia della gente.
E i responsabili restavano impuniti.
Il 6 Novembre il Movimento approfittò dell'incertezza mostrata dal governo per assestare un altro colpo: una manifestazione a Milano, e ben più imponente della precedente. Cinquecentomila persone, secondo gli organizzatori, cifra sicuramente esagerata, ma non troppo lontana dal vero.
Nel mondo politico il nervosismo si tramutò in terrore, e a volte in isteria: sia i moderati che i progressisti temevano di perdere voti, voti decisivi; i moderati perché molti esponenti del Movimento provenivano dalle loro file, i progressisti per la loro opposizione alle richieste degli 'intelligenti'.
I sondaggi, d'altra parte, non lasciavano illusioni: sull'Espresso, in quei giorni, si poteva constatare come solo il 12% degli italiani negasse ancora l'esistenza di un problema "stupidità"; viceversa il 10% voleva l'arresto degli stupidi, il 37% il ricovero o qualcosa di simile, e ben il 41% ne chiedeva l'eliminazione fisica. Questi ultimi erano il doppio rispetto ai sondaggi condotti solo due mesi prima.
L'opinione della gente cambiava. Cambiava rapidamente in peggio, e il Movimento vedeva aumentare ogni giorno i suoi consensi.
Del resto quasi tutti i giornali, parte per paura, parte per convenienza, parte davvero per convinzione, erano ormai schierati in favore degli 'intelligenti'; il solo giornale importante che continuava a battersi "in favore degli stupidi", come si diceva con disprezzo, era la Repubblica.
Le televisioni si trattenevano a fatica, limitandosi ad organizzare dibattiti, interviste, talk-show interminabili.
Studi e teorie sul dilagare della stupidità non mancavano; Chiarenza ne elaborava ogni giorno di nuove e più perfette, dimostrando implacabilmente quanto grave fosse l'incidenza degli stupidi nella società, e quanto urgenti fossero dei provvedimenti "drastici"; famosi economisti calcolavano a quanto ammontasse il danno economico arrecato dagli stupidi al paese, e ben presto si poté appurare che tale danno copriva quasi per intero il deficit dello Stato. Questi ultimi risultati scatenarono il polo moderato, che cominciò ad accusare i progressisti, e il loro governo, di portare la nazione al collasso economico pur di difendere gente "di cui qualsiasi paese civile si sarebbe liberata senza esitazione".
Il 18 Novembre il governo cedette; in un breve, secco comunicato, fu annunciato che "di fronte alla gravità assunta dal problema, visto il parere concorde e unanime dell'opinione pubblica e di illustri scienziati", sarebbero state studiate "le misure opportune a ridurre od eliminare la stupidità dilagante nel paese, e poter quindi ridare slancio alle forze migliori".
L'opinione pubblica, citata nel comunicato, esultò. Esultò così tanto che quel giorno stesso ci furono 4 morti e 30 feriti. Il Movimento, non pago, annunciò nuove iniziative se i provvedimenti del governo non fossero stati "energici ed adeguati".
Ma difficilmente il governo avrebbe preso provvedimenti di quel tipo. Quello che si voleva, in realtà, era prendere tempo per poter studiare meglio il problema, sperando magari che la gente si calmasse, che tutto tornasse come prima.
Alcuni psicologi, scelti tra quelli più moderati, furono consultati ufficialmente: il loro parere, praticamente unanime, fu che il problema stupidità esisteva realmente, ed era un problema grave; il solo provvedimento 'civile' a cui si poteva pensare era un tentativo di elevare in qualche modo l'intelligenza degli stupidi.
Ma come?

5

Marco si stese sul letto e accese la televisione. Era ancora presto per l'intervista a Chiarenza, ma aveva bisogno di rilassarsi. Tutta la giornata era stata faticosa, e quel pomeriggio, prima di poter eliminare uno stupido che aveva adocchiato, era stato costretto a seguirlo per ben due ore. Stava quasi per rinunciare, quando lo stupido, senza ragione apparente, aveva attraversato un viale trafficato incurante delle automobili e delle bestemmie dei conducenti, rischiando di causare un incidente; nella fretta di eliminarlo Marco aveva dimenticato che sarebbe stato opportuno aspettare che arrivasse dall'altra parte della strada ... per evitare un ingorgo aveva dovuto rimuovere il cadavere personalmente, prima che arrivasse il 'carro attrezzi'.
Marco odiava spostare i cadaveri. Senza contare quanto gli veniva a costare di tintoria, dopo. Quelli sulle ambulanze vestivano sempre male proprio per quello, ma lui, lui ci teneva ai suoi vestiti, al suo aspetto. Lui aveva un compito, una missione. Lui doveva fare il lavoro difficile, lui doveva premere il grilletto. Non tutti ne erano capaci.
Certo, non sempre era stato così. Lo sguardo di Marco girò quasi con dolcezza sui mobili della sua camera, sul tavolo in noce, sulla sedia a dondolo, sui quadri illuminati dalla luce soffusa della lampada alogena, sull'armadio a muro alla sua destra, sul quale la luce azzurrina del televisore formava riflessi curiosi e sempre mutevoli.
Non sempre era stato così. La sua infanzia era qualcosa che Marco preferiva ricordare il meno possibile. Sua madre se n'era andata con un altro uomo quando lui aveva due anni, e tutto quello che gli rimaneva di lei era una foto sul suo comodino, una foto in cui lei lo teneva in braccio, e un senso di malinconia che lo abbandonava di rado. Suo padre lo aveva cresciuto a forza di botte per una decina di anni, poi aveva trovato un'altra donna ed era a sua volta scomparso dalla sua vita; di lui gli rimaneva solo un rancore profondo, sordo, una sensazione di cui avrebbe fatto volentieri a meno, ma di cui non poteva liberarsi. Infine, era rimasto altri dieci anni da uno zio. Niente più botte, ma una freddezza, un'indifferenza, una totale mancanza di affetto altrettanto dolorose delle punizioni ingiuste e crudeli che subiva da suo padre.
Il suo rifugio era stato lo studio. Il suo desiderio di sentirsi qualcuno lo aveva spinto a impegnarsi in quel campo; la sua intelligenza gli aveva permesso di prendersi una rivincita, platonica ma pur sempre efficace, su tutti quelli che si ostinavano a non capirlo.
Con un sorriso Marco si soffermò sulla elegante libreria alla sua sinistra. Gli anni dell'università non erano stati tanto male, in fondo ... poi suo zio lo aveva buttato fuori di casa, ed erano stati tre anni di inferno, tre anni passati lavando piatti o spazzando pavimenti in locali sempre pieni di gente squallida. Gente che valeva forse un decimo di quanto valesse lui. Gente stupida. La sua laurea non aveva nessun valore; le sue domande di lavoro venivano regolarmente respinte da funzionari preoccupati solo di trovare gente disposta a farsi mettere i piedi in testa, a farsi umiliare, a fingere sempre, anche fuori dell'ufficio, a vendere la propria vita ai superiori.
Tre anni d'inferno ... tre anni vissuti in orribili stamberghe, spesso divise con personaggi che non avrebbero sfigurato in uno zoo; tre anni passati a risparmiare fino all'ultima lira, negandosi tutto, nella vana speranza di far valere in qualche modo la sua laurea, la sua intelligenza. Tre anni passati a guardare gli stupidi riuscire al posto suo, senza altro motivo, senza altra giustificazione che la presenza di altri stupidi nei posti sbagliati al momento sbagliato.
Poi la gente aveva detto basta. Poi quell'uomo, il professor Chiarenza, aveva spiegato alla gente che le cose potevano cambiare, dovevano cambiare. E Marco aveva avuto la sua occasione.
In fondo la vita non era poi così brutta ... i ricordi peggiori cominciavano ad attenuarsi, come la luce delle lampade alogene che riempivano il suo appartamento quando ne sfiorava l'interruttore col piede. Chissà, forse era proprio per quello che amava così tanto quel tipo di lampade ...
L'intervista cominciò. Era piuttosto tardi, perché ormai da tempo nulla poteva togliere ai film e ai varietà la prima serata; ma l'indice di ascolto sarebbe stato comunque alto. Da quando si parlava di lui come del futuro Presidente della Repubblica, Chiarenza aveva diradato le sue apparizioni televisive. Marco e molti altri non avrebbero perso quell'intervista per nessuna ragione al mondo.
Certo, molte delle domande erano scontate, molte risposte ben conosciute; ma l'intervista veniva realizzata appositamente per il mercato estero, poiché in molti paesi, dopo uno sconcerto iniziale (addirittura qualcuno aveva anche proposto di sanzionare economicamente l'Italia), si cominciava a guardare con interesse al lavoro della Spes. Chiarenza era poco conosciuto all'estero, ma le sue teorie erano senz'altro esportabili.
"... professore, una cosa non facile da spiegare è come mai tanta gente sia diventata stupida proprio in questi anni ..."
Una smorfia alterò appena il volto magro e affilato di Chiarenza; smorfia che restava tale nonostante gli sforzi del regista per farla sembrare un sorriso.
"... non è questo il punto. Vede, ragazza, da un po' di tempo a questa parte la nostra civiltà si è messa a correre. Pensi, un secolo fa non solo non esisteva la televisione, non solo lei avrebbe fatto qualcos'altro, ma non c'erano neanche automobili, né aerei, né la radio, né frigoriferi. Non c'erano bombe atomiche, carri armati, armi chimiche o batteriologiche. I treni erano un lusso e andavano piano, i telefoni una rarità, le malattie infettive la principale causa di morte."
"Questo lo sappiamo, professore. Per fortuna le cose sono cambiate ..."
"Sì, cambiate, ma quanto in fretta! Per mille anni circa il mondo è rimasto uguale a sé stesso, per mille anni non è successo niente ... poi la bussola, la polvere da sparo, e poco a poco abbiamo fatto dei passi avanti. Ma sempre piano, sempre 'con juicio', come diceva Manzoni."
"E poi?"
"Poi tutto si è accelerato, in un secolo abbiamo fatto un salto incredibile, un salto che non accenna a terminare, abbiamo corso quanto nei 5 secoli precedenti, e non sappiamo se e quando ci fermeremo. Ma l'uomo, non la civiltà che l'uomo ha creato, l'uomo stesso, l'animale così perfetto creato dalla Natura ..."
"... o forse da Dio ..."
"... o forse da Dio, l'uomo ha i suoi ritmi di evoluzione, i suoi tempi plurimillenari; l'uomo ha una certa intelligenza, e prima di adeguarsi ai nuovi tempi passerà tanto, troppo tempo."
"Quindi l'uomo non è diventato più stupido, è la nostra società che richiede più intelligenza, se capisco bene."
"Sì, infatti. Vede, il quoziente d'intelligenza medio è sempre 100, oggi come ieri, e questo non basta più. Una volta chi si fermava a 80 era solo una persona con qualche problema, oggi no, oggi è una persona con grossi problemi, una persona che senza soluzioni adeguate può anche fare molti danni."
"E quale sarebbe il giusto quoziente d'intelligenza, oggi?"
"Almeno 110, secondo i miei studi. Forse anche 115."
"Quindi l'eliminazione degli stupidi che si sta portando avanti ..."
"... è il giusto mezzo per aiutare l'opera della natura, un modo per accelerare quella che sarebbe la naturale evoluzione dell'animale uomo ..."
"Lei pensa che riusciremo ad aumentare il Q.I. medio semplicemente eliminando gli stupidi? Riusciremo cioè a selezionare l'animale uomo come farebbe la natura in tempi più lunghi?"
"Certo, ovviamente. La stupidità è ereditaria, ed eliminando gli stupidi eliminiamo anche i loro discendenti. Presto vivremo in un mondo migliore, un mondo con un Q.I più alto ..."
"Più o meno lei ha riassunto tutto questo nella Prima Legge della stupidità, non è vero? La prima di tre leggi che formano la base della sua teoria generale, se ricordo bene ..."
"Sì, certo, la teoria generale parte da questi tre assiomi, e la Prima Legge, La stupidità è un male non necessario, riassume tutte le considerazioni precedenti."
"Molti si chiedono, tuttavia, se non sarebbe possibile fare qualcosa per gli stupidi senza doverli eliminare ..."
Chiarenza si agitò sulla sedia. Le smorfie sul suo volto diventarono incontrollabili. Nessun regista avrebbe potuto farci qualcosa.
"La Seconda Legge, ragazza, la Seconda Legge!"
"La Seconda Legge ..."
"La Seconda Legge, Uno stupido non può diventare intelligente! Per questo non c'è altra soluzione!"
"Qualcuno ha obiettato che lei non ha dato una dimostrazione rigorosa di questa legge ..."
"Che bisogno c'è di una dimostrazione rigorosa? E' stata fatta una prova, è stato constatato il suo fallimento. Le dimostrazioni sono semplici speculazioni, i fatti sono davanti a noi, e sono indiscutibili."

6

Non esisteva nessun sistema 'scientifico' per aumentare l'intelligenza; ma qualcosa si doveva tentare. Qualcuno, in qualche ministero, pensò bene di sperimentare l'equazione "più cultura = più intelligenza". Non era forse vero che gli italiani leggevano pochissimo? Non si poteva incentivare in qualche modo la gente a leggere, nella speranza che questo servisse?
A molti esponenti politici l'idea sembrò buona; ad altri sembrò stravagante, ad altri ancora superficiale. Ma nel governo vi era ancora molta riluttanza a prendere sul serio il problema stupidità, e molti non vedevano l'ora di farla finita; per cui, buona o cattiva che fosse, l'idea fu subito adottata.
L'annuncio ufficiale arrivò il 7 Dicembre: ogni anno, utilizzando buona parte del proprio bilancio, il ministero della Pubblica Istruzione avrebbe spedito a tutti gli italiani, adulti o bambini che fossero, un libro "ad alto contenuto culturale e formativo". Si sperava così di ottenere in pochi anni "grandi benefici sul livello intellettuale del paese".
In effetti, non era un provvedimento da buttar via: se tutto fosse andato liscio, se tutti avessero letto ogni anno almeno un libro, le cose potevano anche migliorare. Era solo questione di fare bene e in fretta ...
Ma da ogni parte si levarono alte proteste. Il Movimento, soprattutto, non voleva saperne di tentativi per aumentare l'intelligenza degli stupidi, poiché riteneva che ogni sforzo in questo senso fosse inutile; l'opinione comune di molti psicologi, Chiarenza in testa, e anche di molti esponenti politici del polo moderato era, più o meno: "la stupidità di certa gente non diminuirà mai".
Conseguenza immediata, tangibile, dell'opposizione al progetto: 10 morti e più di 150 feriti nei quattro giorni successivi all'annuncio.
Inoltre dai primi calcoli ci si rese conto che tale operazione sarebbe costata molte centinaia di miliardi all'anno, e questo in un periodo in cui si parlava spesso di tagli alle spese, di sacrifici. Se l'operazione fosse fallita, come molti pensavano, il paese avrebbe avuto un ulteriore, non indifferente danno economico, che si sarebbe aggiunto a quello che gli stupidi causavano già per conto loro.
Alla fine il tiro fu rettificato. Il governo decise di effettuare un esperimento, su un campione di diecimila persone, durante il mese di gennaio. Il piano su larga scala sarebbe partito solo di fronte a un buon risultato.
Le polemiche e le contestazioni, tuttavia, continuarono. Era opinione sempre più diffusa che nulla potesse aiutare gli stupidi, che qualunque tentativo in tal senso dovesse fatalmente infrangersi contro la loro stessa stupidità.
Comunque il Movimento, dopo qualche esitazione, rinunciò, in attesa dei risultati dell'esperimento, a ulteriori forme di pressione sul governo. Ma questo, come si faceva notare in un comunicato stampa ricco d'ironia, "non certo per verificare l'eventuale riuscita dell'operazione, sul cui fallimento non sussistono dubbi, quanto per avere la prova inconfutabile che l'unica soluzione realistica del problema è la creazione di una società senza stupidi".
Tale comunicato provocò le ire degli ultimi giornali che non appoggiavano il Movimento: la Repubblica, in particolare, parlò apertamente di "posizioni razziste, se non neonaziste".
Intanto l'esperimento veniva messo a punto nel giro di pochi giorni. Grazie all'Auditel venne selezionato il campione di diecimila persone, in pratica le stesse utilizzate per i dati di ascolto televisivi, e sulla cui rappresentatività tutti erano disposti a giurare; si scelsero i libri da inviare a casa, badando che fossero di facile lettura, anche se "ad alto contenuto culturale", evitando le opere straniere, le poesie, i saggi; si evitarono titoli molto conosciuti, e alla fine la scelta cadde su pochi testi di narrativa italiana recente.
I libri furono spediti nei giorni tra Natale e Capodanno. Le Poste collaborarono come non mai, e non ci furono ritardi né disservizi. L'operazione non fu pubblicizzata eccessivamente; si temeva di gonfiare inutilmente il risultato dell'esperimento con un interesse passeggero, e la posta in gioco era troppo alta per rischiare, in futuro, un fallimento su larga scala.
E poi non c'era veramente bisogno di pubblicità, visto che tutti parlavano dell'operazione, pur non risparmiando le critiche.
E cominciò l'attesa. Silenziosa, carica di tensione. Molti si adeguarono all'atteggiamento attendista assunto dal Movimento; gli episodi di violenza diminuirono - ma non le lettere ai giornali -, e qualcuno cominciò a sperare in un ritorno alla normalità, in un risveglio da quello che veniva considerato solo un brutto sogno.
Ma tale non era. Il silenzio non era tranquillo, era minaccioso; episodi di violenza si verificavano costantemente, anche se non numerosi. Nel mese di gennaio i morti furono 'solo' 12, e i feriti diminuirono in proporzione. Come poi si constatò, tutti aspettavano semplicemente il fallimento dell'operazione, fallimento di cui quasi nessuno dubitava, per poter affermare qualcosa del tipo "l'avevo detto", e poi agire di conseguenza.
Troppa fiducia? Troppa sicurezza? Intanto fu messo a punto il metodo di rilevamento: semplice e rapido. Come per i censimenti, alcuni funzionari ministeriali sarebbero passati di casa in casa intervistando le persone scelte per l'esperimento, e avrebbero verificato se e come il libro era stato letto; un riassunto, e se possibile anche una piccola critica, avrebbero fatto capire se "l'alto contenuto culturale" avesse fatto effetto, se fosse stato possibile estendere il metodo a tutta la popolazione, e uscire fuori dal tunnel della stupidità, delle violenze quotidiane, della giustizia sommaria.
La prima settimana di Febbraio fu dedicata alle interviste, ma i risultati, attesi a giorni, non furono divulgati.
Perché? Eppure le persone intervistate non erano tante. Pochi giorni, forse anche poche ore sarebbero bastati per costruire una tabella di facile comprensione.
La tensione tornò a salire. Nei giorni dal 15 al 20 Febbraio ci furono 8 morti, cifra peraltro abituale, e che ormai non faceva più notizia. I risultati, si aspettavano solo i risultati.
Il 18 Febbraio il Movimento accusò apertamente il governo di tenerli nascosti per non ammettere il fallimento dell'operazione; la replica, non molto convincente, sosteneva che, data l'importanza della posta in gioco, i risultati andavano elaborati "con la massima cura ed attenzione".
Ma dopo pochi giorni anche il polo moderato si affiancava apertamente al Movimento, sposandone per la prima volta l'ideologia in tutti i suoi punti, compresi quelli più controversi, e ribadiva lo stesso convincimento. Morti e feriti aumentarono; le polemiche, anzi, le minacce, si moltiplicarono. Il 26 Febbraio, un breve comunicato del governo annunciava che l'analisi dei dati era a buon punto, e che "presto" questi sarebbero stati resi pubblici. Ma infine, il primo Marzo, un colpo di scena: i risultati sarebbero usciti sul numero di Panorama in edicola il giorno successivo! Che scoop!
Evidentemente nelle alte sfere, o giù di lì, qualcuno non era d'accordo con la linea ufficiale del governo, e aveva deciso di rompere gli indugi ... d'altra parte era verissimo che si stava facendo di tutto per tenere nascosto il fallimento dell'operazione, così come tutti supponevano.
Il 2 Marzo fu il primo giorno di una settimana terribile, forse la più tremenda dalla fine della guerra. Panorama andò esaurito nel giro di poche ore, e nel corso della giornata la rabbia degli 'intelligenti', a lungo repressa, montò senza limiti.
I famosi risultati erano addirittura peggiori del previsto.
Basti dire che su diecimila persone più della metà non aveva neanche aperto il pacco ricevuto; anzi, moltissimi furono quelli che ammisero di averlo perso, buttato via, o regalato.
Solo quarantotto persone erano riuscite a riassumere quanto avevano letto, e di queste solo due avevano formulato un giudizio critico. Una delle due era un professore universitario.
L'esperimento era fallito. Evidentemente. Irreparabilmente.
L'intelligenza degli stupidi non poteva aumentare.
Verso mezzogiorno del 3 Marzo molti giornali staccarono i telefoni, non riuscendo più ad arginare la marea di telefonate traboccanti odio e rancore contro gli stupidi, contro il governo, contro il mondo intero.
Praticamente tutti, in ogni ambiente, erano convinti che l'esperimento fosse stato condotto su un campione di diecimila stupidi, e reagivano di conseguenza; in realtà non era così. I diecimila rappresentevano l'intera popolazione, ma nessuno sembrava farci particolarmente caso.
D'altronde non vennero fatte analisi serie sul fallimento dell'operazione: il tempo mancava, e bisognava trovare delle soluzioni; solo molto tempo dopo venne ipotizzato che gli intelligenti compresi nel famoso campione non avessero letto il libro perché convinti di non averne bisogno. Forse era vero, ma intanto gli eventi precipitavano.
Nel pomeriggio del 3 Marzo un comunicato ufficiale del governo 'chiariva' che il ritardo nella pubblicazione dei risultati - non smentiti - era dovuto alla necessità di effettuare ulteriori controlli, dato "l'esito sorprendente". Nessuno ci credette; 9 stupidi uccisi, quel pomeriggio. Il Movimento chiese esplicitamente le dimissioni del governo, e invitò la gente a scendere in piazza a Roma, il giorno successivo.
La mattina seguente il professor Chiarenza esponeva le basi di una teoria generale sulla stupidità, asserendo, tra le altre cose, che "lo stupido, per sua natura, rifiuta ogni forma di intervento che tenda a renderlo meno stupido", e che il problema poteva essere risolto "solo con l'eliminazione fisica di tutti gli stupidi, nessuno escluso". Infatti, "lo stupido, per il solo fatto di esistere", era causa di "danni irreversibili e continuati, che non possono essere evitati se non con la sua eliminazione".
Per la prima volta un personaggio così popolare, così ascoltato, chiedeva apertamente l'uccisione degli stupidi.
Per molta gente questo fu come una liberazione. Le allusioni, le metafore, i giri di parole avevano stancato.
Nel pomeriggio, a Roma, una folla immensa si radunò davanti al Parlamento, occupando tutte le strade e le piazze intorno a via del Corso, gridando slogan contro il governo, inneggiando allo sterminio degli stupidi.
Ben presto la polizia dovette intervenire per fermare i manifestanti che tentavano l'assalto a palazzo Chigi; gli scontri si estesero a macchia d'olio a tutto il centro storico, e durarono fino a sera.
Alla fine si contarono 8 morti, decine di feriti, auto distrutte a centinaia, negozi incendiati e danni ingenti a molti edifici del centro, monumenti compresi. Dei morti, 6 erano stupidi linciati dalla folla, gli altri due un poliziotto e un dimostrante che avevano perso la vita in circostanze poco chiare.
Nella notte, il governo si riunì in seduta straordinaria, ma nessuna decisione poté essere presa. I contrasti tra i ministri e nella maggioranza erano tali da rendere ormai impossibile l'adozione di un qualsiasi provvedimento. Nella mattinata del 5, Chiarenza, che si trovava a Padova per tenere una conferenza all'Università, veniva fatto arrestare da un magistrato di tendenze progressiste con l'accusa di "istigazione all'omicidio".
Praticamente questo fu l'ultimo tentativo di opporsi agli 'intelligenti'.
Quando molte migliaia di persone si radunarono davanti alla caserma dei carabinieri in cui si trovava il professore, si temette il peggio; ma Chiarenza fu lasciato libero di parlare alla folla, e grazie al suo carisma si riuscì a evitare un massacro.
Comunque l'assedio alla caserma non fu tolto che in serata, e i manifestanti si ritirarono avendo ben presenti i consigli del professore: "... la colpa non è delle autorità, ma degli stupidi ... non bisogna lasciare che gli stupidi facciano i loro comodi ...".
Fu così che il 6 Marzo la rabbia degli intelligenti toccò il suo massimo. Stavolta non si trattava più di colpire chi mostrava di essere stupido, stavolta si trattava di colpire e basta.
In tutto il paese si scatenò una gigantesca caccia allo stupido, dalle prime luci dell'alba fino a notte fonda, quando si contarono 28 persone massacrate dopo feroci torture, in genere in pubblico; e non tutte erano stupide.
A Torino una ragazza era stata cosparsa di benzina ed arsa viva, mentre una folla di almeno mille persone aveva impedito ogni soccorso; a Firenze, un bar gestito da uno stupido era stato devastato e incendiato con alcune bottiglie molotov; il titolare, la moglie, e i suoi due figli erano morti; ancora, a Bari l'auto di uno stupido era stata distrutta da una bomba, e due passanti erano morti nell'esplosione insieme al conducente.
I feriti furono centinaia, e 6 morirono nei giorni seguenti.
Infine, in serata, anche il magistrato che aveva ordinato l'arresto di Chiarenza veniva ucciso a colpi di pistola da due persone a bordo di una moto. Stava tornando a casa da solo e senza scorta; non l'aveva chiesta, e nella confusione generale nessuno ci aveva pensato.
Il giorno dopo la Repubblica uscì con un titolo che avrebbe fatto epoca, e che occupava l'intera prima pagina: "DIES IRAE", semplicemente. L'intero giornale fu dedicato alle violenze del giorno precedente; tutti gli articoli esprimevano un'indignazione senza limiti, una durezza senza precedenti, un attacco durissimo a Chiarenza e ai suoi seguaci del Movimento. I paragoni con Hitler e con Nerone si sprecavano; ironia, coraggio, e anche una certa incoscienza non mancavano.
Ma lo stesso giorno altri 16 stupidi venivano uccisi; in tarda serata un commando di una decina di persone irrompeva nella redazione del giornale, uccideva due redattori, gambizzava tutti gli altri, e infine incendiava i locali; contemporaneamente la tipografia dove veniva stampato il giornale veniva rasa al suolo da una bomba di potenza incredibile, che uccideva tutte le persone al lavoro in quel momento, e tutti i passanti nel raggio di un centinaio di metri.
La Repubblica non uscì mai più. Peraltro vendeva ormai meno di centomile copie giornaliere, e quasi nessuno ne sentì la mancanza.
La mattina dell'8 Marzo il governo rassegnava le dimissioni.

7

Marco si rigirò sul letto. D'accordo, l'intervista era per il mercato estero, ma le domande erano un po' troppo stupide. Anche la giornalista? Chissà ...
"Anche se i fatti sono indiscutibili, come lei ci ricorda, non potrebbe fornire, se non una dimostrazione, almeno una giustificazione alla Seconda Legge?"
Le smorfie sul volto di Chiarenza cambiarono impercettibilmente, dando al professore un'aria tra il rassegnato e l'infastidito.
"Tutto questo investe il concetto stesso di stupidità ... se nello stupido ci fosse sia pure la minima propensione verso l'intelligenza, questa andrebbe avanti da sola, e lo stupido non sarebbe più tale."
"Come dire che questa impossibilità di diventare intelligenti è essa stessa una caratteristica, come dire ..."
"Una caratteristica di base. Anzi, l'essenza stessa della stupidità."
"Nessuna speranza, quindi ..."
"Nessuna speranza."
"Professore, qualcuno obietta, però, che eliminare in massa tutta questa gente è contro i principi di convivenza e di ..."
"Ancora!"
"E' soprattutto dall'estero che vengono queste osservazioni ..."
Chiarenza si agitò, perdendo per un momento la sua compostezza.
"Quali principi di convivenza? Lei sa che queste accuse vengono specialmente da sinistra, e nascondono fini politici. Ma pensi invece a chi non dovrebbe avere di questi fini, mi riferisco per esempio ai movimenti ecologisti, che predicano tanto, e dimenticano la legge fondamentale della natura ..."
"La selezione della specie!"
"Ecco, appunto! Da quando in qua un branco di animali si prende cura degli elementi più deboli? Meno che mai di quegli elementi che ne mettono in pericolo la sopravvivenza!"
"Quindi ..."
"Quindi non mi venga a parlare di principi di convivenza! Tali principi impongono appunto ciò che si sta facendo!"
Ci fu una breve pausa, e Chiarenza ritrovò la posizione più composta sulla sua poltrona.
"Professore ..."
"Sì?"
"Cosa risponde a chi sostiene che questo sistema, questo uccidere gli stupidi in mezzo alla strada sia eccessivamente crudele?"
"Crudele?"
"Sì, e c'è anche chi pensa che possa essere diseducativo per i giovani."
"Un buon esempio non è mai diseducativo. Sapere a cosa porta la stupidità è sempre istruttivo, ragazza."
"Ma ..."
"E in quanto alla sua crudeltà, non riesco proprio a vederla. Sei colpi di pistola, e tutto è finito. Vorrebbe forse prenderli vivi, magari processarli, e poi finirli con qualche iniezione letale? Per me questo è crudeltà."
La giornalista parve colpita. Chissà, si chiese Marco, da che parte era stata, una volta. Certo, molti avevano cambiato idea, ma ...
"Ci parli della Terza Legge, professore."
"Gli stupidi si accoppiano solo tra di loro. Non è vero che sia la legge meno importante, come sostiene qualcuno. E' una legge di grande valore pratico, perché ci permette di isolare l'intera classe degli stupidi in un'unica visione formale, quasi fosse un problema di matematica ..."
"Addirittura!"
"Beh, di insiemistica, allora. Pensi comunque ai vantaggi che ci darebbe la Terza Legge, pensi quanti stupidi potrebbero venire individuati ed eliminati semplicemente scorrendo tutte le amicizie e le relazioni di uno di loro!"
"Però gli agenti della Spes non hanno tutto il tempo necessario a condurre questo tipo di indagine ..."
"Però io dico da tempo che bisognerebbe affiancare alla Spes un altro corpo di polizia, con questo specifico compito."
"Lei sa che non è facile far quadrare il bilancio dello stato ... piuttosto, esiste una giustificazione, se non una vera dimostrazione, per la Terza Legge?"
Chiarenza sospirò. Forse solo il pensiero di trovarsi di fronte a una telecamera lo tratteneva dallo sbuffare apertamente.
"Ragazza, nessuna persona intelligente sopporterebbe la compagnia di uno stupido per più di cinque minuti!"

8

Formare un nuovo governo non richiese troppo tempo. Un uomo del polo moderato, convinti i progressisti a dare un'astensione tecnica in attesa delle elezioni di Maggio, mise su un governo di tecnici in una settimana. D'altra parte la fretta si imponeva, visto che in quella settimana altre 69 persone, probabilmente non tutte stupide, furono massacrate.
Ma alla fine venne l'annuncio che tutti attendevano, in una conferenza stampa tenuta immediatamente dopo il giuramento dei ministri. Era il 16 Marzo, giorno che molti avrebbero ricordato con un fremito di gioia.
"Questo governo, vista l'estrema gravità del problema causato dalla crescente stupidità di parte della popolazione, vista l'inutilità di ogni tentativo per poter ridurre tale stupidità in modi ragionevoli, visti i pareri unanimi ricevuti a questo proposito, si impegna solennemente a prendere provvedimenti che portino all'eliminazione fisica degli stupidi presenti nel paese".
Tutto questo con appositi disegni di legge, e ovviamente dopo le elezioni.
Infatti mentre il polo moderato era schierato compatto a favore della proposta, i progressisti, che formalmente avevano ancora la maggioranza in Parlamento, sembravano decisi a fare opposizione, o quantomeno ostruzionismo, il tutto in nome dei principi di "civile convivenza".
Chiarenza, scarcerato pochi giorni prima per "assoluta mancanza di elementi", ironizzò sull'atteggiamento dei progressisti, facendo notare come fosse strano parlare di civile convivenza, di fronte all'impossibilità di "condurre una vita normale in presenza di stupidi".
Ma, dopo il carcere, si cominciava già a parlare di lui come di un possibile futuro Presidente della Repubblica ...
La campagna elettorale fu difficile, costellata di uccisioni di stupidi, di polemiche, di tentativi di trovare scappatoie, soluzioni alternative; il Movimento aveva rinunciato a scendere in campo direttamente, ma molti dei suoi esponenti si erano candidati nelle file del polo moderato; dall'altra parte i progressisti erano divisi tra la paura di perdere le elezioni e la volontà di opporsi a quello che molti chiamavano "il genocidio annunciato". Vanamente si cercò di spostare l'attenzione della gente sui molti altri problemi che affliggevano il paese: criminalità, pensioni, sanità, disoccupazione, deficit pubblico, corruzione; tutto appariva secondario, subordinato all'unico problema reale, vale a dire la stupidità da debellare ad ogni costo.
Anzi, gli studi condotti da Chiarenza e dai suoi collaboratori, tra cui molti economisti, dimostrarono inesorabilmente come tutti gli altri problemi fossero riconducibili a quello della stupidità; eliminati gli stupidi, ogni cosa sarebbe certamente andata per il meglio.
I giornali si riempirono di complessi calcoli sui possibili andamenti futuri dell'economia, una volta risolto il problema principale; gli ultimi dubbi, le ultime resistenze si affievolirono, nonostante la strenua opposizione dei progressisti meno inclini al compromesso.
Finalmente si arrivò alle elezioni, e la questione finì. Già la sera in cui si era votato fu chiaro che il polo moderato aveva ottenuto circa il 70% dei voti, che nel sistema maggioritario corrispondevano al 100% dei seggi. Per gli stupidi era la fine. I progressisti, scomparsi dal quadro politico, si ritirarono in silenzio, aspettando la soluzione del problema per tornare a far sentire la loro voce.
Il nuovo governo fu formato a tempo di record, e verso la fine di Maggio si cominciò a studiare seriamente a quale mezzo ricorrere per risolvere finalmente il maledetto problema. I migliori esperti, a partire dallo stesso Chiarenza, furono consultati ufficialmente; le cose da chiarire erano molte, e le sterili discussioni dei mesi passati avevano fatto perdere un sacco di tempo.
Quanti erano gli stupidi, innanzitutto?
Chiarenza portò una voluminosa documentazione, ricca di cifre e di teoremi, in buona parte elaborati da lui stesso; le sue conclusioni, assolutamente "a prova di errore", furono che andava considerata stupida 1 persona ogni 3, per un totale di circa 20 milioni di soggetti.
Di questi, 5 milioni erano da considerare praticamente idioti, e andavano eliminati al più presto; per quanto riguardava gli altri ... per il momento si poteva anche soprassedere.
A molti venne un colpo nel sentire queste cifre. Per poter andare avanti fu necessario un rimpasto nel governo, e si scoprì in quell'occasione che molti esponenti moderati avevano ancora qualche scrupolo, nonostante nessuno si fosse discostato dalla posizione ufficiale.
Risolti questi inconvenienti, si passò, verso metà Giugno, a cercare il modo più rapido ed efficiente per eliminare tutti questi stupidi; la pressione dell'opinione pubblica era sempre fortissima, i linciaggi continuavano, anche se non frequenti come nei mesi precedenti, e si voleva trovare una soluzione definitiva prima dell'estate.
La prima cosa a cui si pensò era anche la più ovvia: sottoporre ai test per il calcolo del Q.I. l'intera popolazione, e successivamente eliminare tutti coloro che non raggiungevano un certo valore, per esempio 80, che lo stesso Chiarenza considerava il punto 'critico'.
Ma i difetti di questo sistema emersero quasi contemporaneamente alla proposta: innanzitutto, i test per il calcolo del Q.I. erano considerati da sempre poco attendibili, ed era noto che in paesi in cui se ne faceva ampio uso, come gli Stati Uniti, le cantonate erano all'ordine del giorno.
E naturalmente quello che si voleva era eliminare gli stupidi, non certo commettere errori!
Un altro grosso problema era dato dal fattore tempo: quanto ci sarebbe voluto per portare a compimento il progetto? Anni? Decenni? Si trattava di sottoporre ai test almeno 45 milioni di persone, escludendo i minorenni, poi di esaminare i risultati, ovviamente a mano, data la natura dei quesiti; e visti i tempi che si impiegavano nei concorsi statali per valutare poche migliaia di temi o di problemi, non c'era da stare allegri; naturalmente sarebbe stato necessario controllare tutto almeno una seconda volta per non rischiare una valanga di errori; se poi tutto fosse andato bene, bisognava compilare l'elenco delle persone da eliminare, e poi ... come bisognava agire, a questo punto? Convocare le persone da eliminare e sottoporle a iniezione letale o qualcosa di simile? Assurdo: nessuno, per quanto stupido fosse, sarebbe venuto. Mandare qualcuno a domicilio per procedere all'eliminazione? Impraticabile: se fossero scappati? Peggio ancora, se si fossero ribellati?
Bisognò cercare altre soluzioni; ma tutte avevano sempre gli stessi difetti: costi troppo elevati, tempi troppo lunghi, alta possibilità di errore.
Infine qualcuno, probabilmente il ministro della Difesa, un ex-progressista che fin dall'inizio si era schierato contro gli stupidi e per questo aveva dovuto cambiare bandiera, ebbe l'idea giusta: perché non colpire la stupidità nel momento stesso in cui si manifestava? In altre parole, perché non eliminare sul posto chiunque mostrasse di essere stupido, senza attendere altre prove? Nessuna prova era infallibile come una dimostrazione di stupidità, questo era accettato da tutti; e in quanto ai tempi, poche migliaia di persone ben addestrate potevano ripulire il paese in pochi anni, se ciascuno fosse riuscito a trovare almeno uno stupido al giorno. Costi contenuti, nessuna possibilità di fuga per le vittime, effetto sorpresa. Che volere di più?
Bastava creare un corpo di polizia con questo esclusivo compito, e non ci sarebbero volute che poche settimane, una volta approvata la relativa legge. Qualcuno obiettò che anche questo metodo non era del tutto esente da errori; che rimaneva una possibilità di confondere uno 'stupido occasionale' con uno stupido vero. Ma nuovamente il parere del professor Chiarenza venne a sciogliere quest'ultimo nodo: sarebbe bastato che gli addetti al riconoscimento - e all'eliminazione - degli stupidi fossero persone di provata intelligenza per evitare qualsiasi confusione.
Si arrivò infine al momento di discutere il disegno di legge. E qui si venne a scoprire, una volta messe da parte tutte le scuse, risolti tutti i problemi, che c'era ancora qualcuno non del tutto convinto; in particolare, alcuni ministri tra i più anziani, i cui ricordi arrivavano fino ai tempi dell'occupazione nazista, caddero preda di scrupoli e di rimorsi al pensiero di organizzare uno sterminio su larga scala utilizzando un metodo così 'sbrigativo'.
Si dovette ricorrere a un nuovo rimpasto, e ciò nonostante le resistenze continuarono. Fu solo di fronte a una recrudescenza delle violenze di massa che si riuscì finalmente a fare il grande passo.
Il 4 Luglio il disegno di legge che avrebbe risolto una volte per tutte il problema stupidità veniva presentato in Parlamento.

9

La primavera non portava solo nuvolette soffici ... in giro non c'era solo torpore, pigrizia, o romanticismo; più banalmente la temperatura saliva, a volte di un bel po', a volte quasi senza variazioni tra un giorno e l'altro.
Ma saliva. Le gelaterie riaprivano, i parchi si affollavano; le biciclette, per quanto i colli della capitale lo permettessero, tornavano numerose nelle strade. E la piccola, ma rinomata gelateria lungo la via Appia vedeva aumentare la sua clientela giorno dopo giorno ... con gioia dei commessi, del padrone del locale, e alla faccia dei lunghi mesi invernali che questi passava ogni anno su qualche spiaggia tropicale ... o che i primi passavano girandosi i pollici.
Quella domenica mattina quattro persone si trovavano nel locale: una giovane coppia proprio davanti al bancone, e due signori di mezza età dall'aria falsamente annoiata poco dietro, il cui interesse sembrava spostarsi dallo scarno arredamento del posto, in pratica ridotto al bancone e alla cassa, al grande cartello su cui campeggiavano i 36 gusti di gelato sempre disponibili.
La ragazza, abbracciata più o meno teneramente al suo 'uomo', se tale si poteva definire il bulletto di periferia insieme a lei, era esattamente davanti al cartello, e scrutava con aria più divertita che interessata le vaschette metalliche che si stendevano all'interno del bancone, ognuna con la sua etichetta, su cui campeggiava il nome del gusto insieme con un piccolo disegnino.
"Che gusti avete?"
L'uomo dietro il bancone cominciò stancamente una specie di litania: "Limone, fragola, amarena, pistacchio, melone, arancio, kiwi, rib..."
"E il bacio? Avete il bacio?". Risatina.
"Sì, bacio, gianduia, zabaione, crema, vaniglia, ciocc..."
"Io voglio il bacio, il bacio!". Risatina. Poi un breve amplesso, se così poteva essere definito quello che accadde subito dopo tra i due giovani.
"Mi dia bacio e gianduia ... no, la stracciatella, c'è la stracciatella?"
"Certamente, quanta ne vuole. Panna?"
"Sì... no. Un po'". Risatina.
Pssscht.
"No no. La panna la voglio sotto, sopra non mi piace". Risatina.
"Ahò, potevi dirlo prima ..."
"No no. La voglio sotto, sotto."
Un altro cono prese forma tra la mani del gelataio, con bacio, stracciatella, e la panna, rigorosamente sotto.
"Ah scusa, non è che ci potresti mettere l'amarena?". Risatina.
"Ahò, deciditi ...".
"Il bacio lo voglio, sì, sì, e la panna sotto, sotto!". Il tutto seguito da un'altra parodia di amplesso.
"Mo' va bene?"
"Ma c'hai solo 'sti gusti?".
Intanto le persone all'interno del locale erano diventate dieci in tutto, e il quinto era Marco, che non poté fare a meno di pensare a quanto dovesse essere buono il gelato in quel posto, se tanta gente si accalcava in uno spazio così angusto.
La ragazza finì a terra già al secondo colpo.
Il terzo e il quarto fermarono i sussulti del suo corpo.
Il quinto al cuore. Il sesto alla nuca.
Come a sfidare la legge sull'impenetrabilità dei corpi, gli altri sette occupanti del locale si ritrassero formando un cerchio intorno a Marco e alla coppia - o meglio ex-coppia - pur rimanendo tutti all'interno.
Il ragazzo cominciò a urlare.
Tenendo sempre la pistola con la destra, Marco estrasse rapidamente dalle sue tasche il tesserino bianco e rosso. E un nuovo caricatore.
"Spes". Agitando il tesserino davanti ai presenti.
Il ragazzo urlava sempre.
"Spes". Sul naso del ragazzo.
Cambiare caricatore fu affare di pochi secondi.
"Spes". Il ragazzo urlava, urlava istericamente, senza dar segno di voler aggredire Marco, senza chinarsi sul corpo steso in terra. Non faceva nulla di quello che ci si aspetterebbe dopo aver visto qualche film di troppo.
Urlava e basta, fermandosi solo qualche attimo per riprendere fiato di tanto in tanto. Come fanno i neonati, o i bambini capricciosi.
Ma era più grosso di un neonato. Al terzo colpo era ancora in piedi, e urlava; al quarto cadde pesantemente sulle ginocchia, e dopo il quinto, sparato al solito in direzione del cuore, si rovesciò sul cadavere della sua compagna.
Ma ancora emetteva dei versi orribili, cercando di gridare, sussultando, come se fosse percorso da brividi improvvisi. Più che lamentarsi, gorgogliava.
Il sesto colpo gli arrivò alla testa, da pochi centimetri.
Non ci fu più nessun suono.
Poi un'orribile bestemmia uscì dalle labbra del gelataio.
"... guarda come mi hai ridotto il locale! Mo' chi pulisce qua dentro?".
Marco ebbe un sussulto. La Terza Legge, in quel momento pensava solo alla Terza Legge. E il gelataio continuava.
"Ma lo sai quanto ci vuole a pulire 'sto schifo? No che non lo sai."
La Terza Legge. Gli stupidi si accoppiano solo fra di loro.
"Sì, beh ... adesso chiamo il carro attrezzi ..."
"Eh sì, certo. Voi raccattate e ve ne andate. E io pulisco."
Gli stupidi si accoppiano solo fra di loro. Fra di loro.
"Mo' che c'era gente. M'hai fatto sprecare mezza giornata."
Fra di loro. Fra di loro.
"Almeno chiama 'sto carro attrezzi, no?"
"Io ... sì. Se mi dai una mano spostiamo 'sti due, e poi ti aiuto a pulire."
"Ambe'... 'n core ce l'hai."
Marco si rivolse agli altri clienti. Sembravano pure più di prima.
"Un momento. Facciamo in un momento."
Cominciava a sentirsi più calmo. Gli effetti della scarica di adrenalina si attenuavano ... si ritrovò a spostare di lato il cadavere del ragazzo, aiutato dal gelataio. Poi toccò alla ragazza.
La terza legge. Gli stupidi si accoppiano solo fra di loro. Se eliminate uno stupido che fa parte di una coppia, siate pronti a eliminare anche il partner: così insegnavano durante l'addestramento, e non era quella la prima volta che gli capitava ... forse la decima. Ma ogni volta non riusciva a reprimere il timore di un'aggressione da parte del compagno. E sì che Chiarenza in persona aveva spiegato che non c'erano pericoli.
"Lo stupido, per sua natura, non comprenderà quello che è accaduto. O rimarrà in un silenzio ebete, o si darà a reazioni isteriche prive di logica."
Mentre chiamava il 'carro attrezzi', Marco sorrise. In effetti tutto si era svolto in quel modo. Come le altre volte, del resto. Perché non se ne ricordava mai? Doveva imparare a dominarsi, a tenere l'adrenalina sotto controllo. O la sua promozione si sarebbe fatta aspettare.
"Ahò, m'aiuti a pulire, allora?"
Le parole, e lo sguardo carico di rimprovero del gelataio, che, inginocchiato in terra aveva cominciato a ripulire, scossero appena Marco dai suoi pensieri. Ora che era più calmo si era pentito di aver fatto quella promessa. Non lo pagavano mica per rimettere anche a posto, dopo.
Il telefono tornò al suo posto nella giacca; a malincuore Marco si chinò e aiutò il gelataio, cercando di sporcarsi il meno possibile.
Ecco che succedeva quando si aveva paura. Si perdeva il controllo, si dicevano cose di cui poi ci si pentiva. Le spese di lavanderia, adesso, non gliele rimborsava nessuno.
E quella promozione che non arrivava.
Se almeno tutta quella gente avesse apprezzato di più il suo lavoro ... se ne stavano lì, ammassati sull'entrata, aspettando che lui finisse, con un'aria indifferente che gli dava non poco fastidio.
Ingrati. Ecco cosa erano. Una massa di ingrati.
Tanto più che, ripulito il locale, non tutti si avvicinarono al bancone come era evidentemente nei desideri del gelataio. Nonostante una serie di richiami, e di gesti di evidente disappunto, la maggior parte rimase sulla soglia, sempre con la stessa aria indifferente, mostrando semmai maggiore attenzione ai due cadaveri ammucchiati in un angolo che non al bancone dei gelati.
Del resto la voglia di gelato era passata anche a Marco. Senza sentire quello che il gelataio gli gridava dietro, il giovane uscì dal locale e rimase fuori ad attendere l'arrivo del 'carro attrezzi'.
Il gelato ... beh, sarebbe stato per un'altra volta.
Il mondo era pieno di gelaterie.

10

I punti principali del disegno di legge erano:
- creazione di un corpo di polizia, denominato P.T.I., ossia Polizia per la Tutela dell'Intelligenza, composto inizialmente da 3000 agenti, ma destinato a raggiungere il numero di 10000 effettivi;
- il territorio nazionale sarebbe stato diviso in circa 1200 'distretti', e in ciascuno di questi un 'prefetto' avrebbe coordinato l'attività di un certo numero di agenti, da un minimo di 2 a un massimo di 10;
- ogni agente avrebbe 'pattugliato' in continuazione il suo distretto, col compito di eliminare immediatamente chiunque avesse dato segni di stupidità;
- si prevedeva che tre anni sarebbero bastati a eliminare quei cinque milioni di stupidi più gravi di cui aveva parlato il professor Chiarenza;
- tutta la struttura era alle dipendenze del ministro dell'Interno, che avrebbe presentato ogni anno un rapporto dettagliato sulle attività svolte.
Fare approvare il disegno di legge non fu difficile, né laborioso. Non c'era opposizione, in Parlamento, e nonostante qualche riserva emersa nel corso dei lavori, dapprima la Camera (il 10 Agosto), quindi il Senato (il 4 Settembre) diedero via libera al provvedimento.
Già durante l'estate era stato diramato il bando del concorso necessario per assumere il primo blocco di 3000 agenti, e le selezioni cominciarono pochi giorni dopo l'approvazione della legge; la gente si presentò in massa, ma coloro che disponevano dei due requisiti fondamentali - elevata intelligenza e abilità nell'uso delle armi - erano pochi. Fu relativamente semplice scartare la maggior parte dei quasi duecentomila aspiranti, e all'inizio di Ottobre i prescelti (Marco era tra questi) potevano cominciare il corso di addestramento rapido.
Come al solito quando si trattava di concorsi pubblici, non mancarono le proteste degli esclusi; particolarmente vivaci furono le lamentele dei gruppi femministi, visto che solo una quarantina di donne erano entrate a far parte del nuovo corpo di polizia; si fece notare, tuttavia, che in genere le donne erano carenti per quanto riguardava la seconda caratteristica richiesta, vale a dire l'uso delle armi; e nonostante le facili ironie di chi invece pensava che fosse la prima quella a creare problemi, alla fine fu accettato pacificamente che 'tutelare l'intelligenza' era uno dei lavori meno adatti al 'sesso debole'.
Ottobre passò in fretta, mentre le violenze di massa contro gli stupidi andavano cessando; forse perché tutti si rendevano conto che ormai non ce n'era più bisogno, o forse per una sorta di timore reverenziale nei confronti di coloro che ne stavano per fare una professione; comunque gli agenti furono istruiti in ogni dettaglio da un nutrito gruppo di psicologi, sotto la diretta supervisione di Chiarenza, su quali fossero le tecniche da usare per riconoscere gli stupidi, su come fare per attaccare discorso con loro, su come e quando pedinarli, e così via.
E per quanto tutta la struttura fosse stata messa su in fretta e furia, sotto la spinta dell'opinione pubblica, alla fine funzionò. E meglio del previsto. Il 31 Ottobre, dopo un mese di addestramento intensivo, i 3000 agenti entrarono in azione. E alla fine della giornata c'erano quasi 5000 stupidi in meno. Un bel passo avanti rispetto ai circa duemila uccisi dalla gente in tutti i mesi precedenti!
Certo, molti dettagli erano stati perfezionati negli ultimi giorni; e molti aspetti di quel lavoro dovevano ancora essere messi a punto. Agli agenti fu concesso di poter agire anche al di fuori del proprio distretto, e naturalmente anche fuori servizio; a tutti fu data in dotazione una pistola di grosso calibro, per eliminare gli stupidi rapidamente e con sicurezza, e munita di silenziatore, per non richiamare troppo l'attenzione. Fu anche data loro la possibilità, in servizio o no che fossero, di viaggiare gratis su tutti i mezzi pubblici.
La scelta dei prefetti creò qualche problema, ma alla fine si trovarono, in parte tra i funzionari ministeriali di livello più elevato, in parte tra gli alti gradi di polizia e carabinieri, persone sufficienti a ricoprire tutti i distretti.
Meno facile da risolvere fu il problema relativo alla raccolta dei cadaveri degli stupidi eliminati, e la soluzione non fu trovata che due giorni prima che gli agenti entrassero in azione. Si ricorse al personale paramedico delle USL, all'epoca di molto in sovrannumero: infermieri e portantini si adattarono senza difficoltà al nuovo, e non sempre piacevole compito, servendosi per l'occasione di vecchie ambulanze trasformate in carri funebri; ben presto, dato che queste erano perennemente in giro nei loro distretti raccogliendo cadaveri, prese piede l'abitudine, specie tra gli agenti, di chiamarle 'carri attrezzi'.
Un altra curiosa abitudine, nata già durante l'addestramento, fu quella di chiamare 'Spes' il corpo di polizia; l'origine di questo soprannome, o meglio, di questa sigla, era piuttosto singolare.
Infatti, nonostante la schiacciante vittoria elettorale del polo moderato, qualche oppositore era rimasto, specialmente tra gli ex-ministri progressisti, e talvolta faceva la sentire la sua voce, a dispetto dell'indifferenza generale; comunque molti di loro presero a riferirsi agli agenti del nuovo corpo di polizia come 'squadre per l'eliminazione degli stupidi', usando chiaramente la parola 'squadre' in senso negativo, come si usava da decenni; ma poi i giornali si accorsero di come si potesse formare la parola latina Spes giocando con le iniziali di quello che doveva essere un soprannome dispregiativo ... la cosa piacque, Chiarenza in persona volle che gli agenti adottassero come loro motto la frase latina Spes ultima dea, e da allora la più anonima sigla P.T.I. rimase solo sul tesserino bianco e rosso che tutti loro portavano con sé.
E tutto sommato il motto funzionò: se la speranza in un futuro migliore, finalmente privo di stupidi, dipendeva dalle pistole degli agenti, i risultati del primo anno di attività confermarono le previsioni: ben seicentomila erano stati gli stupidi eliminati, e nel secondo anno, grazie al raddoppio degli effettivi, tutto indicava che sarebbe stato superato il milione.
Era passato quasi un anno e mezzo, e anche se qualcuno non era ancora del tutto convinto, ormai le proteste si erano attenuate, si erano come sbiadite, non diversamente da certe scritte apparse numerose, i primi tempi, nelle grandi città.
Scritte che dicevano, più o meno: "SPES = SS".
E comunque ne erano rimaste ben poche.

11

Quella mattina era più calda del solito, l'aria era più limpida, i colori più vivi, i rumori più nitidi. La bella stagione avanzava a grandi passi, e Marco si sentiva di ottimo umore. Anzi, dell'umore giusto per provare qualcosa di più impegnativo rispetto ai suoi consueti giri per il quartiere.
Qualcosa che soddisfasse la sua tenacia, la sua abilità.
I suoi passi lo portarono vicino alla Standa, davanti a quel portone dove abitava la stupida in grigio che aveva visto giorni prima. L'amica della tardona che se ne era andata in taxi.
Il portone era chiuso, ovviamente. Pochi palazzi potevano permettersi un portiere, e ovviamente l'anonimo edificio davanti a lui non era tra quelli.
Tanto bastò per ricordare a Marco quanto fosse complicato il suo lavoro.
A poca distanza da lì un piccolo bar faceva sfoggio di qualche tavolo all'aperto; non che fosse una soluzione comoda ed elegante, certo; i tavolini sul marciapiede non erano l'ideale. Però rappresentavano degli ottimi posti di osservazione.
Marco si sedette, aprì il giornale che portava con sé, e attese l'arrivo del cameriere.
Due ore e molti tè dopo, nulla era cambiato. Un sacco di gente era entrata e uscita da quel portone, ma la stupida, la sua stupida, non si era ancora vista. Pazienza. Doveva portare pazienza. Ordinare dell'altro tè, leggere un'altra volta il giornale. Continuare nel faticoso esercizio di tenere un occhio sul portone e l'altro sui fogli ormai spiegazzati che teneva in mano. Continuare per quanto?
Il suo umore cominciava a non essere più così buono, nonostante la bella giornata, nonostante il cielo azzurro. Nonostante l'ottimo tè, che lo aveva piacevolmente sorpreso.
Perché aspettare? Quanto aspettare? La donna non si era ancora vista, e lui non poteva sapere se e quando sarebbe uscita. O forse era già uscita, e sarebbe dovuta rientrare, ma quando?
D'altronde per eliminarla doveva constatarne la stupidità. E se non la incontrava, se non ci parlava, o almeno non la sentiva parlare, se non ne studiava i comportamenti, niente constatazione.
Marco si girò sulla sedia, per l'ennesima volta. Certo, lui non aveva nessun dubbio. Perché verificare ancora? Perché non andare semplicemente a casa della donna, tirare fuori la pistola, e ucciderla? Lui sapeva che era una stupida; lui riconosceva gli stupidi a naso, dopo 18 mesi di pratica, e probabilmente non avrebbe neanche avuto bisogno di sentirla parlare.
Perché aspettare ancora? Nessun dubbio. Basta. Alzarsi, citofonare a un appartamento qualsiasi, descrivere la donna, farsi aprire, salire, uccidere. Farla finita con quell'attesa snervante.
Le mani di Marco si serrarono sul giornale. Quasi senza rendersi conto, cominciò a ripiegarlo. Ecco. Ora si sarebbe alzato. Ora ...
Ma il regolamento, il dannato regolamento! Prima constatare, dopo eliminare. Era un buon agente, lui, uno dei migliori. Nessuno gli avrebbe detto niente, certo, se fosse semplicemente andato a casa della stupida e l'avesse eliminata. Ma lui aveva un compito, una missione; lui agiva in nome di qualcosa, non per soddisfare la sua impazienza, o peggio, la sua noia.
Doveva aspettare. E poi esistevano gli errori. Rarissimi, ma esistevano. Marco ricordava bene l'imbarazzante incidente di qualche mese prima, a Milano ... una donna non riusciva a tirar fuori la macchina da un parcheggio un po' strettino, in una strada non molto larga; in breve il traffico era rimasto bloccato, finché un agente, che si trovava in un'auto ferma nell'ingorgo, era sceso, aveva ucciso la donna, spostato la sua macchina e risolto la situazione ...
Ma poi i parenti avevano protestato. La donna era un medico, e lavorava in un importante istituto di ricerca; a quanto pareva, non si trattava di una vera stupida. Alla fine, grazie anche alla testimonianza di alcune delle persone rimaste bloccate quel giorno, l'agente se l'era cavata; ma l'incidente aveva creato non pochi malumori, e soprattutto un'interminabile serie di prediche e raccomandazioni a tutti i suoi colleghi.
Marco compreso, ovviamente.
Certo, per quella donna nessuno avrebbe reclamato; la stupidità le si leggeva in faccia, in quei capelli stopposi, in quel viso animalesco, in quegli occhialini ridicoli, in quegli abiti cascanti.
L'immagine della donna tornò alla sua mente ... la vide nitidamente, come se fosse stata davanti a lui, sentì l'odio crescere dentro ... e poi la vide per davvero, all'improvviso, proprio lì, davanti a quel portone.
Stava uscendo. Marco ebbe un sussulto. Alzarsi, abbandonare il giornale, attraversare la strada quasi correndo: furono pochi secondi in tutto, mentre una gioia selvaggia si impossessava di lui.
Ovviamente aveva pagato tutte le consumazioni al momento stesso dell'ordine; non poteva certo farsi correre dietro qualche cameriere. Marco ci pensò per un attimo, mentre raggiungeva il portone, e sorrise. Lui era un esperto.
La donna svoltò l'angolo. Senza fretta, Marco continuò la sua strada. In fondo, non c'erano che una cinquantina di metri tra lui e la sua preda. Stavolta non gli sarebbe sfuggita, se lo sentiva dentro. Dopo quasi tre ore di attesa ...
E invece, una volta raggiunto l'angolo a sua volta, non la vide.
Com'era possibile? La strada davanti a lui non era affollata, e anche le macchine erano poche. Eppure la donna non si vedeva.
Ma forse era entrata in un negozio. Sì, certo, senza dubbio era così. Marco respirò, e una volta raggiunto il marciapiede opposto, cominciò a scrutare oltre le vetrine, col segreto timore di essersi sbagliato, e di aver trascurato qualche particolare che spiegasse la scomparsa della donna ... no! Eccola, nel negozio di alimentari davanti a lui. Eccola, ora la vedeva bene, affannarsi a prendere scatole e pacchetti dagli scaffali.
Eccola, pronta per essere abbattuta. Attraversare la strada, entrare nel negozio, cogliere i segni della stupidità, eliminare.
Ma prima che Marco mettesse in pratica le idee che gli vorticavano in testa, la donna fu nuovamente sul marciapiede, con una busta di plastica in mano. Tornava verso casa, camminando piano, senza nascondere una certa fatica dovuta al peso di quanto aveva acquistato.
L'idea prese forma nella mente di Marco. Finalmente nitida in ogni particolare, a prova di errore. Quasi saltando dall'altra parte della strada, il giovane raggiunse il marciapiede opposto, e girò più in fretta che poté intorno al palazzo. Molto, molto più rapido della donna.
E non appena Marco fu davanti al maledetto portone, la vide rigirare l'angolo, venire verso di lui, leggermente curva sotto il peso della busta.
Camminando piano, ora, le si avvicinò con indifferenza; poi, arrivato a pochi metri da lei, si fermò, e la sua mano corse all'interno della giacca, come per cercare qualcosa.
Ne uscì tenendo il telefono cellulare.
Rimettersi in moto e urtare la donna fu affare di un attimo. La busta finì in terra, scatolette, pacchi di pasta e di biscotti invasero il marciapiede. "Mi scusi, signora, mi scusi ..."
"Ma dove cammina?"
Che voce stridula, odiosa.
"Mi scusi, ero distratto. Lasci che l'aiuti."
Un attimo, e Marco era in terra, raccogliendo quasi con amore la roba sparsa dappertutto, rimettendola nella busta, controllando che nulla fosse rotto.
"Mi dispiace veramente, signora. Non so che mi è preso."
"Va bene, giovanotto. Lasci, dia qui."
Marco odiava sentirsi chiamare 'giovanotto'. Suo padre lo chiamava così, quando aveva qualche rimprovero da fargli. E ai rimproveri seguivano le botte.
"Sono veramente mortificato, signora. C'è tutto?"
"Ma sì, certo. Dia qui."
"Lasci che le porti io la busta, signora."
"Beh, io, no, ecco ..."
"Una busta così pesante! Gliela porto io, tanto non abita lontano?"
"Ma no, lasci, io ..."
"Si figuri, è il minimo che possa fare."
"Vabbe', insomma ... abito proprio qui, vede, è lì, dietro di lei ..."
Intanto Marco aveva ripreso a camminare, la busta in mano, la donna al suo fianco. Il portone sempre più vicino.
"Vuol dire che le porterò la busta fino alla porta di casa, signora."
"Lei è troppo gentile. In fondo non è successo niente ..."
"Potevo farle male, signora. Sono in debito verso di lei."
"Grazie. Io ..."
La donna aprì goffamente il portone, rivelando agli occhi di Marco un androne buio e angusto. Degno di lei.
"Ma è proprio sicuro ..."
"Non deve preoccuparsi, signora. Per me è un piacere accompagnarla."
Cosa che in fondo non era lontana dal vero.
"Io abito al primo piano. Le scale ... venga."
Accompagnarla non era esattamente un piacere, ma forse ne valeva la pena. Marco si sentiva fremere. Qualsiasi momento poteva essere quello buono. Non ancora, non ancora!
Le scale erano strette e sporche. La porta di casa anonima.
"Lei è veramente gentile. La prego, entri."
L'ingresso era squallido, l'aria sapeva di chiuso.
"Dia qui, lasci quella busta."
In fondo era veramente una stupida. Fidarsi così! Se avesse avuto cattive intenzioni? Poteva essere una scusa per rapinarla, violentarla ...
Violentarla! Marco trattenne a stento una risata.
"Porto tutto in cucina, non se ne vada."
Ma quanto ci metteva? Il maledetto regolamento ... non era sufficiente, non ancora, non ancora!
La donna riemerse da una delle porte che davano sull'ingresso.
"Lei è stato così gentile, è tanto difficile trovare persone educate al giorno d'oggi ..."
Frasi fatte. Non ancora.
"Ho fatto quello che dovrebbero fare tutti, signora."
Anche questa non era una bugia.
"Ma non stia lì in piedi! Posso offrirle qualcosa?"
Sì, prendere tempo. Conversare. Aspettare il momento giusto.
"Grazie, signora."
"Le faccio una tazza di caffè, vuole?"
"No, signora, io bevo solo tè."
"Tè, allora; aspetti che glielo preparo."
La donna scomparve di nuovo in quella che doveva essere la cucina.
Marco rimase in piedi nell'ingresso. Il suo sguardo vagò da una porta all'altra, da un mobile all'altro ... se si potevano chiamare mobili quell'orrendo incrocio tra un tavolino e un sedile da bar sopra al quale era poggiato un telefono, oppure quella specie di cassettiera in legno scuro che stonava tremendamente col colore chiaro delle pareti.
Dalla cucina veniva un rumore di tazzine.
Quanto ci sarebbe voluto? Quanto ancora?
Chissà se le altre stanze erano meglio dell'ingresso ... la porta della cucina era proprio davanti a lui. Soggiorno e camera da letto dovevano trovarsi oltre le due porte alla sua sinistra; il bagno probabilmente era alla sua destra. Comunque era una casa più grande della sua. Una donna così stupida, eppure poteva permettersela.
L'idea che potesse avere un marito non sfiorava nemmeno la mente di Marco, e poi non gliene importava affatto. Non era giusto, semplicemente.
La donna ricomparve silenziosamente sulla porta della cucina.
"Mi scusi ... ci vuole lo zucchero, nel caffè?"
Un sorriso illuminò il volto di Marco. Mentre estraeva la pistola, non poté trattenersi dal dire: "Avevo detto tè, signora."
Pochi secondi dopo era tutto finito. Non un grido, e nemmeno un gesto di stupore o di protesta. Come tutti gli stupidi, del resto.
E ora finalmente era lì, ai suoi piedi.
Marco respirò profondamente. Una piacevole sensazione di ebbrezza lo invase, mentre i suoi nervi si rilassarono, dopo le lunghe, snervanti ore di attesa.
Ne era valsa la pena. La sua mano cadde lentamente, lasciando andare la pistola sul corpo della sua vittima.
Prendere il telefono cellulare, comporre il solito numero fu un riflesso automatico. Chiamare il 'carro attrezzi', sentirsi dire che ci sarebbe voluto del tempo, che altre chiamate erano in corso.
Pazienza. Un sottile filo di fumo si alzava dai vestiti della donna, lì dove toccavano la canna ancora calda della pistola.
Marco si guardò intorno. Ora che era finalmente rilassato, i suoi sensi si risvegliavano lentamente. Gli odori dalla cucina. I rumori del traffico, così intensi, lì al primo piano. La stanchezza successiva alle ore di tensione.
La stanchezza ... perché no? Forse poteva riposarsi un po', in attesa che arrivassero quelli del 'carro attrezzi'. Un riposino in camera da letto ...
La prima porta a sinistra portava nel soggiorno. Restava l'altra.
Sì, eccola. Brutta come il resto della casa, ma almeno un letto c'era.
Ovviamente a una sola piazza, ancora sfatto.
E gli altri mobili, che orrore. Così analoghi a quelli della sua camera, e così grotteschi. Come l'armadio dalle ante a specchio, che troneggiava sulla parete in fondo, ingombrante e ridicolo. Come se la padrona di casa potesse provare piacere nello specchiarvisi; come il tavolinetto striminzito, che non poteva servire né a scrivere né a buttarci sopra qualche vestito; o le sedie impagliate, mezzo sfondate dall'uso; o il massiccio comodino accanto al letto, antiquato e poco funzionale; e lo stesso letto ...
Qualcosa non andava. Che cosa? Marco avvertì una sensazione stranissima, una specie di scossa di cui non sapeva spiegarsi l'origine.
Era disorientato, sapeva che doveva esserci qualcosa di strano, qualcosa che aveva appena visto ... il comodino, il comodino era strano.
No. Non il comodino. La foto sopra il comodino. La stessa che si trovava in camera sua.
Quella in cui sua madre lo teneva in braccio.
Le pareti della stanza sembrarono piegarsi su di lui, e mentre il volto della fotografia cominciava a confondersi con quello della donna in grigio, Marco smise di sentire i rumori del traffico.
E poi tutto fu buio.

12

Il barbone, uno degli ultimi rimasti per le strade, canticchiava qualcosa a mezza voce ... e non si trattava delle solite, improbabili benedizioni rivolte ai passanti nella speranza di ottenere un po' di elemosina.
Marco si chinò leggermente, cercando di afferrare qualche parola.
"... il Piave mormorava ..."
Curioso. Certo non sembrava un barbone sobrio, ma così patriottico non se lo sarebbe aspettato. Chissà, forse tanti anni prima aveva studiato con uno di quegli insegnanti fissati con la grande guerra ... non poteva essere così vecchio da avervi partecipato!
Comunque era proprio il 24 Maggio, e con un sorriso Marco tirò avanti, verso l'imponente edificio del ministero, dove il prefetto lo stava aspettando.
La penombra in cui si trovava perennemente l'interno del palazzo, la polvere che riempiva ogni angolo, l'incessante brusio delle mille persone che giravano senza sosta e senza meta in tutti gli androni, rendevano più soffocante il caldo che lo tormentava, nonostante l'estate fosse ancora lontana.
Marco non poté trattenersi dal pensare che non c'erano più le mezze stagioni ... una frase fatta, o meglio un 'pensiero fatto'.
L'ufficio del prefetto era l'estrema sintesi di tutto il ministero. Buio, senza finestre, polveroso e disordinato. E il prefetto, quell'uomo sudato e dall'aria annoiata che sedeva dietro la scrivania, non era poi diverso da uno qualsiasi dei tanti impiegati che affollavano le tante stanze di quel palazzo, tutte uguali, buie, inutili e misteriose come le funzioni delle persone che le occupavano.
Tuttavia, un certo lampo che di tanto in tanto si accendeva negli occhi di quell'uomo, rivelava a Marco che non tutto, in quella stanza, era così buio e inutile.
Dopo i convenevoli di rito, il giovane sedette di fronte al prefetto.
"Come sta, Santilli? La vacanza? Eh, potessi prenderla io, una vacanza!"
"Sto bene, grazie."
"E mi dica, com'erano le ragazze, carine? Eh, al posto suo ..."
"Carinissime. Mi sono divertito."
"Eh, beato lei. Io, io invece ..."
Ed ecco quel lampo, appena percettibile anche per uno come Marco, abituato ad osservare, a non lasciarsi sfuggire nessun particolare.
"Sono sicuro, Santilli, sono più che sicuro, che lei si è divertito."
"Sì, signore."
"Lei è un ottimo agente."
"Grazie."
Qualcosa nella voce del prefetto cambiò. I suoi occhi scintillarono di nuovo.
"Lei è un ottimo agente, Santilli. Sarò franco con lei."
Marco rimase impassibile.
"Dopo, ehm, l'incidente con sua madre, non si offende se lo chiamo così?"
"Prego."
"Ecco, lei sa che se ne è parlato molto sui giornali, e noi, noi ... insomma, prima o poi sarebbe capitato, certo, ma non ci si pensava, e invece ..."
"Invece è capitato."
"Appunto. Ed ecco, vede, lei è svenuto, e insomma, ha avuto un colpo, sono arrivati che non stava molto bene, per cui ..."
Il prefetto abbassò appena la voce.
"Molti hanno pensato che lei fosse finito. Finito come agente, per intenderci. Abbiamo dovuto mandarla in ferie, lei mi capisce."
"Questo lo so."
"Sì, certo. Bene. Io però continuavo ad avere fiducia in lei, e mi creda, non glielo dico per essere preso in simpatia, glielo dico perché è vero ..."
"Non ne dubito, signore."
Il prefetto poggiò i gomiti sul tavolo, appoggiando la testa sulle mani. La sua aria sembrò farsi più stanca, più rassegnata.
"Io avevo fiducia in lei, io e pochi altri. Ma eravamo in pochi, devo dirle la verità. In fondo la mamma è sempre la mamma, no? Come pensare che lei potesse riprendersi, dopo?"
La testa si staccò dalle mani, bruscamente. Il busto si raddrizzò sullo schienale della sedia.
"Ma ora sono venti giorni che lei è tornato al lavoro ... trenta stupidi, se non mi sbaglio, trenta in soli venti giorni ..."
"No, ventinove."
Un altro lampo. Un mezzo sorriso.
"Ventinove. Fa una media di 1,45 stupidi al giorno. Bene. Bravo."
Il prefetto si rigirò sulla sedia, lo sguardo sempre fisso in quello di Marco.
"Quelli che la davano per finito si sono ricreduti. Quei pochi che avevano fiducia in lei sono guardati con rispetto. Lei è un ottimo agente, davvero."
Marco si mosse sulla sedia, impercettibilmente.
"Lei è sempre stato uno dei nostri migliori agenti. Ma certo, questo lo sapeva già, immagino?"
"Lo speravo."
"So che lei sperava in una promozione ... non dica di no, tutti gli agenti sperano in una promozione."
"Sì ..."
"E ora, lei capisce, ora tutti si sono ricreduti. Ora, sì, ora!, hanno capito che lei è bravo. Che lei merita la sua promozione."
La voce del prefetto si abbassò ancora.
"Noi crediamo, io credo, che lei abbia dimostrato ampiamente di valere una promozione. Sì, forse la meritava anche prima; anzi, non vi è il minimo dubbio, o almeno io, io non ne avevo ..."
"La ringrazio."
"Però lei ha dimostrato di essere davvero bravo, di valere qualcosa. Ecco, io penso che lei meriti qualcosa di più."
La voce si era ridotta a un sussurro, gli occhi a due fessure.
"Lei avrà letto i giornali ... sarà informato, conoscerà i dati ..."
Marco rimase in silenzio, lo sguardo sempre fisso sull'uomo di fronte a lui.
"La situazione economica continua ad essere ... a non essere come noi vorremmo. Sono stati eliminati molti stupidi, questo è vero, anzi, un bel po', non ricordo esattamente quanti ..."
"Poco più di un milione."
"Sì, appunto! E vede, insomma, l'economia non migliora."
Un attimo di silenzio, e sembrò quasi che ciascuno dei due uomini potesse udire i battiti del cuore dell'altro.
"Perché questo? Molti se lo chiedono. Vede, penso di poterle dire che in realtà l'economia va anche peggio di quanto può leggere in giro. In questi 18 mesi non solo non è migliorata, anzi."
Il prefetto si riscosse. La sua voce tornò a salire.
"Eppure ci sono tanti stupidi in meno. Eppure ancora non va. Ebbene, ora cominciamo a capire. Vede, Santilli, gli stupidi non sono tutto, no."
"No?"
"Gli stupidi sono una parte. Un pezzo del problema generale, del vero problema, di cui solo adesso ci stiamo rendendo conto".
Un profondo respiro seguì le ultime parole.
"Chiamiamolo il problema delle persone inutili. Certo, gli stupidi sono anche dannosi, ma ci siamo dimenticati di tutti gli altri! Degli handicappati, dei pensionati, specialmente quelli non autosufficienti. Sono una massa sterminata di gente, e succhiano risorse. E vivono alle nostre spalle."
Marco si spostò lentamente sulla sedia, mentre qualcosa si accendeva nei suoi occhi. Il prefetto abbassò di nuovo la voce.
"Non possiamo prescindere da tutte queste altre persone, questa massa inutile e dannosa. No, non possiamo. Certo, i problemi saranno grandi. Pensi, per esempio, che in Parlamento siede un sacco di gente anziana. Pensi, se ci decidessimo ad eliminare i vecchi, almeno quelli non autosufficienti, incontreremmo un sacco di resistenza. Sì, sì, non dica niente: lo so che sono pochi, ma sono anche potenti, hanno un sacco di amicizie, di conoscenze. Per ora ... lei capisce, forse presto, forse già l'anno prossimo, ma per ora ..."
"Per ora?"
"Per ora ci stiamo lavorando, ma tocca aspettare."
Il prefetto si rialzò, con un movimento lento, quasi studiato.
"Ma non ci sono solo problemi. Santilli, ora lo posso dire con certezza: entro il prossimo mese ci sarà un bel passo avanti."
"Passo avanti?"
"Sì, passo avanti. Gli handicappati, Santilli, gli handicappati! Il disegno di legge è pronto. Lei avrà di certo sentito qualche voce, ma niente di più; avrà saputo che ci si stava pensando, questo sì. Ma io glielo posso confermare, le posso garantire che è ufficiale. Se non ci sono intoppi, da Settembre, massimo Ottobre, tocca agli handicappati."
Marco si chinò in avanti, quasi per afferrare meglio quello che diceva il suo interlocutore.
"Naturalmente gli handicappati sono più, come dire?, più difficili da scovare degli stupidi. Mica vanno in giro, no, i parenti se li tengono in casa, li accudiscono, li nascondono. Tutto questo crea delle difficoltà, oh sì."
Nuovamente quello scintillio negli occhi del prefetto.
"Servirà gente in gamba. Gente che sappia indagare, che sappia capire. Qualcuno che riesca a trovare un handicappato solo ... solo per sentito dire. Naturalmente assumeremo un po' di persone, lei può immaginare. Tutti in gamba, tutti a prova di errore. Ma ci sarà bisogno di qualcun altro, qualcuno veramente bravo, qualcuno esperto, che possa coordinare queste ricerche, che possa suggerire, consigliare, intervenire nelle situazioni difficili."
La pausa che seguì fu così profonda che i due uomini potevano realmente sentirsi respirare.
"Qualcuno come lei, Santilli."
Marco non riuscì a trattenere un sorriso.
Il prefetto sospirò.
"Eh, la invidio. Lei avrà un posto e uno stipendio analoghi al mio, ma un compito molto più gratificante ... e sì che anch'io ci avevo fatto un pensierino, lo confesso. Ma loro dicono che ormai sono esperto di stupidi, che il mio lavoro è prezioso, insostituibile, alla fine le solite cose. Insomma, io me ne resterò qua, e lei farà un bel salto!"
Marco chiuse gli occhi. Le parole dell'uomo davanti a lui si ridussero a un borbottio senza più alcuna importanza, mentre la sua mente vagava altrove, persa dietro sogni e progetti per l'avvenire.
Ripercorrendo i corridoi bui e polverosi, poco dopo, gli sembrò che in fondo quella poca luce che filtrava dalle alte finestre fosse più che sufficiente a rendere quel posto vivo e pulsante. I suoi occhi non vedevano più l'eterno pulviscolo che ruotava nella penombra, ma mille impiegati, ognuno con la sua storia, con la sua vita che poteva anche essere ricca di soddisfazioni.
Come era capitato a lui.
Era un uomo tranquillo, dall'aria serena e distaccata, quello che uscì dal ministero dell'Interno un caldo pomeriggio di fine primavera ...


Di tutti i miei racconti, questo è sempre stato il mio preferito, nonostante lo stile non regga il confronto con quelli che ho scritto più di recente; l'idea mi venne a metà degli anni '80, quando il partito oggi noto come "Lega Nord" cominciò ad aumentare i suoi consensi. Il personaggio del professor Chiarenza, ad esempio, è vagamente ispirato a quello di Gianfranco Miglio, "ideologo" di quel partito fino alla sua morte, avvenuta qualche anno fa.
I successi della Lega, partito dichiaratamente razzista, mi convinsero che si poteva lavorare molto sul razzismo inconscio che quasi tutte le persone portano dentro di sé, portando lo spunto iniziale fino alle estreme, paradossali conseguenze, in una sorta di delirio collettivo che richiama l'ascesa del nazismo e termina, volutamente, in un finale privo di sbocchi e di speranze. Purtroppo i continui riferimenti a giornali e luoghi troppo italiani, anzi romani, appesantiscono la narrazione; almeno questo è quanto mi fu riferito dai giurati del concorso "Aleramicus", al quale mandai "Spes", senza successo, nel 1995.