Nonostante questo sia il racconto più breve che abbia mai scritto, ho impiegato circa quattro anni per finirlo. Si compone essenzialmente di due parti fuse tra loro: una autobiografica, che narra certe cose che mi sono accadute nel 1991 (è tutto autentico fino all'ultima virgola, tranne i nomi dei protagonisti), e una fantascientifica e ricca di previsioni per il futuro. Previsioni discutibili, se non del tutto sbagliate, come sempre accade a chi scrive fantascienza.


LILIANA

Finalmente gli avvocati delle due parti avevano raggiunto l'accordo su quali frasi sottomettere a "Liliana". In poco più di mezz'ora il cancelliere dettò al microfono del PC compatibile B86 le 72 frasi che descrivevano in modo completo la complessa causa riguardante una questione di eredità tra la vedova Capuleti e i suoi nipoti, i tre fratelli Montecchi.
Il consueto minuto di pausa. Poi, nel silenzio dell'aula, il sintetizzatore vocale del PC emise la sentenza: "La vedova Capuleti ha ragione".
Un applauso si levò dal pubblico, mentre la stampante laser produceva in pochi secondi il verdetto, completo della motivazione e dei riferimenti agli innumerevoli articoli di ben tre codici diversi entrati in gioco nella complicata causa.
Anche se il pubblico parteggiava per la vedova Capuleti, a cui i nipoti avevano inutilmente cercato di sottrarre una cospicua eredità, molti avvocati avevano invece previsto una vittoria dei secondi; ma "Liliana", il programma esperto nella soluzione delle cause civili che io avevo messo punto otto anni prima, non sbagliava mai. La sua conoscenza dei codici e la sua abilità nel correlare i fatti lo rendevano non solo infallibile, ma probabilmente il programma di intelligenza artificiale più avanzato al mondo, escluso forse Infinite Power, il primo programma di scacchi ad aver battuto in un match il campione del mondo, il quarantenne Gata Kamski.
Ma perché "Liliana", molti si chiedevano? Perché non "Arbiter 7.12" o "Robby" o "Hal 9000" o qualsiasi altro nome, compreso il mio?
Veramente curiosi di saperlo? Allora vi racconterò la storia, non proprio a lieto fine, della nascita di "Liliana".
Era successo un giorno di nove anni prima, mentre sfogliavo una rivista di informatica. Guardavo divertito gli annunci di chi cercava di vendere a prezzi stracciati qualche vecchissimo Pentium, ormai fuori produzione da 4 o 5 anni, e intanto rimiravo compiaciuto il mio 986, acquistato poche settimane prima da un fornitore mio amico, ed equipaggiato con 512 Mb di Ram, 2 drives per floppy da 12 Mb l'uno, hard disk ottico da 50 gigabytes, schermo ultrapiatto ad assorbimento totale, scheda video TGA da 2560 x 2048 pixel, DOS 10.1, Xenix 5.2, OS/2 6.0 e Windows 6.1 di serie.
E finalmente un riconoscitore vocale veramente buono. Il primo, fornito anni prima col DOS 8.2, riconosceva solo comandi DOS-like, come "Format a", e solo se sillabati con cura. Con questo, invece, che girava sotto Windows, era possibile dettare nel microfono frasi come "Formatta il dischetto" o "Inizializza il floppy", con le più svariate intonazioni di voce, e invariabilmente la macchina ti rispondeva "Inserire il dischetto". La prima seria possibilità, almeno per gli utenti finali, di fare a meno della tastiera, dopo anni di tentativi; e questo grazie alla nuova EMT-shell (Elastic Multilanguage Translator shell) messa a punto dalla Microsoft (si mormorava da Bill Gates in persona).
Tuttavia, pensavo, eravamo ancora ben lontani dalla possibilità di dialogare con il computer, come in quel vecchio film di fantascienza ambientato pochi anni prima (eh, le previsioni mai azzeccate degli scrittori di SF!) in cui il computer di bordo (che poi diventava cattivo) parlava normalmente con gli astronauti, comprendendo tutto ciò che gli veniva detto.
Una volta avevo visto un vecchissimo programma, si chiamava "Lisa" (o Eliza), che faceva finta di dialogare con l'utente; ma era poco più di uno scherzo, e da allora nessuno se ne era più occupato seriamente. Mentre pensavo a questo problema suonò il telefono. Era Liliana, la ragazza di Sergio, uno dei miei migliori amici. Tra una cosa e l'altra le parlai anche del problema del "dialogo". E lei, semplicemente, mi disse "Perché non ci pensi tu?"
"Troppo difficile", risposi.
"Perché? Uno con le tue capacità ce la può ben fare".
In effetti molta gente mi considerava un genialoide un po' pigro, ma capace, quando voleva, di fare cose pazzesche col PC. E perché no?, cominciai a ripetermi: forse ero davvero un genialoide ... perché no?
Da allora, in quasi ogni momento libero, mi dedicai al problema, con un'energia insospettata, con un'ostinazione sfiancante. E progredii. Dapprima trasferii nel mio PC un ipervocabolario su CD-ROM che mi ero fatto prestare da un mio amico giornalista. Un ipervocabolario, se non lo sapete, è un vocabolario 'totale', che contiene tutte le forme verbali, i diminutivi, i maschili, femminili, singolari, plurali, insomma tutte, ma proprio tutte le parole che possono comparire in una conversazione, naturalmente col loro significato.
Scrissi dei database in grado di scandire l'ipervocabolario e costruire, per ogni parola, una serie di "attributi" logici, collegati tra di loro, così come con le altre parole, da uno schema relazionale di complessità inaudita; per esempio, alla parola "fame" furono assegnati gli attributi "desiderio" - che puntava ai concetti (più che alle parole) "mangiare" e "cibo" -, e "presenza", che rimandava a "malessere" e "debolezza".
Lo scopo finale, in sostanza, era quello di poter 'dire' al PC una frase come "Ho fame", e sentirsi rispondere cose del tipo "Vuoi mangiare? Per caso ti senti debole?" ...
Creai così quello che chiamai "ipervocabolario normalizzato". Mi costò molta fatica, ma dopo qualche mese ce l'avevo fatta. Poi andai avanti. Scrissi un programma in grado di fare l'analisi logica di ogni frase, e poi un altro in grado di trovare le parole e abbinarle al loro significato 'normalizzato', trasformando così la frase, e avvicinandosi alla sua 'comprensione'.
E intanto nella mia vita c'era sempre di più Liliana. Liliana, che io amavo segretamente da molto tempo; Liliana, il cui rapporto con Sergio appariva sempre più stanco e superficiale non solo a me, ma anche a molti amici comuni, nonostante andasse avanti da molti anni. Ma nessuno di noi aveva mai fatto la minima osservazione.
Liliana, che mi telefonava sempre più spesso, e mi sognava addirittura.
Una sera che mi trovai ad accompagnarla a casa da solo, lei crollò.
Ammise di essere innamorata di me, ma soprattutto ammise di non esserlo mai stata di Sergio, di non aver mai provato attrazione per lui, di non esserne nemmeno gelosa. Il loro era stato un rapporto tra compagni di scuola, che iniziato per gioco anni prima, era andato avanti per abitudine, senza un perché, senza interesse, senza passione. Capii che non era una 'crisi' fra loro due, non un 'momento difficile'. Era la soluzione di un equivoco.
I sensi di colpa svanirono: crollai anch'io, e tra noi due successe tutto.
Ma quello che a me sembrava lo sbocco naturale di una situazione non diversa da tante altre, cominciò a poco a poco a rivelare delle differenze, che si insinuarono nel nostro animo come piccole crepe, la cui tendenza ad allargarsi avrebbe forse dovuto mettermi sull'avviso. Ma ancora oggi mi chiedo se veramente le nostre vite siano affidate al caso, o se per caso quello che molti chiamano destino esiste veramente ...
Liliana informò Sergio, che non mostrò né rabbia né dolore; niente di tutto quello che c'eravamo aspettati.
Infatti la sua tattica fu diversa; cominciò a parlare a lungo di me con Liliana, a far notare i miei difetti, veri o presunti che fossero; a ricordare le mie storie passate, soprattutto quelle finite male; a evidenziare i lati più discussi del mio carattere, come la mia testardaggine, ormai proverbiale tra gli amici che frequentavamo.
E questo ogni giorno, in ogni occasione. E naturalmente quando qualcuno gli chiedeva se ce l'avesse con me, una risposta negativa e un sorriso erano la sua immutabile reazione.
Passai un periodo incerto: il mio programma andava avanti, e il giorno in cui sarei riuscito a conversare col PC era sempre più vicino; ma i dubbi che ogni giorno venivano insinuati nella mente di Liliana non giovavano al nostro rapporto, né ai miei sforzi di concludere il mio lavoro.
Poi lei riuscì finalmente a troncare ogni rapporto con Sergio, passando sopra i troppi anni passati insieme; ed io e lei fummo veramente felici, almeno per un breve periodo. Forse troppo felici, e imparai presto che quanto più grande è la felicità che si prova con la persona amata, tanto più grande può diventare la sofferenza.
Tra i nostri conoscenti molti avevano perplessità su quanto era accaduto; molti pensavano male di me, per via dell'amicizia che mi aveva legato a Sergio. Ma coloro che meglio conoscevano Liliana rimanevano stupiti, al contrario, della metamorfosi che si era operata in lei, sempre chiusa e malinconica fino ad allora, e adesso diventata radiosa, ancora più bella di quanto lo fosse mai stata; e soprattutto allegra, così felice da riuscire a trasmettere la sua gioia a coloro che le stavano intorno. Cosa altro potevamo volere? Averla trasformata in questo modo, e percepire in ogni sua parola, in ogni suo gesto tanta felicità, era più di quanto avessi mai desiderato; più di quanto fossi mai riuscito a fare nella mia vita.
Così bello era il vederla felice, che persino il fatto di essere amato da lei mi appariva secondario: e infine, come potevo sentirmi colpevole di qualcosa, nonostante i rimproveri prima, e poi l'allontanarsi di alcuni amici comuni a me e a Sergio? In compenso i miei rapporti con quelli che compresero e approvarono l'accaduto migliorarono non poco.
Eppure ... sembra strano, in questa epoca di progressi fulminei, che le persone, viceversa, non riescano ad evolversi, a superare certi schemi o certi problemi. Sembra ieri quando i 986 erano il non plus ultra in fatto di informatica, ed oggi sono poco più che ferrivecchi, apparecchiature da nascondere, a meno di riuscire a sopportare sguardi di compassione, e talvolta di disprezzo.
Ma le persone restano uguali.
Ancora oggi faccio fatica a mettere ordine nei miei pensieri, anzi, è solo con difficoltà che mi convinco che non ho sognato: perché quello che accadde quando lei fece sapere ai genitori del suo nuovo rapporto non rientra nella normale logica delle cose. O almeno, nessuno ha mai compreso fino in fondo cosa sia successo.
Erano persone all'antica? Forse. Avevano su di me informazioni sbagliate?
Anche questo può essere, anzi, ora so che è vero. Ma ciò nonostante, non avremmo dovuto, io e Liliana, superare una contrarietà 'normale'? Avremmo dovuto, sì, ma io avevo dimenticato come il fascino di Liliana risiedesse in buona parte nella sua incredibile fragilità, in quel suo vivere e comportarsi da persona tenuta tutta la vita sotto una campana di vetro, incapace di comprendere le mostruosità di questo mondo, incapace di difendersi.
Da quel giorno in cui lei parlò con i genitori, non vi fu insulto, non vi fu minaccia o ricatto che le fu risparmiato. Ciò che venne detto di me era spaventoso, irripetibile; che io ero un tossico, un pazzo, un maniaco; che lo erano pure i miei genitori; che i miei figli sarebbero stati dei mostri; che per essersi messa con me lei era diventata lo schifo del mondo; le consuete frasi "ci farai morire di crepacuore" e "ricorda i tuoi doveri di figlia unica" erano le cose più gentili che potesse sentire ...
Questo in tutte le ore del giorno e della notte, in casa o fuori, in ogni circostanza, in ogni attimo di tempo disponibile.
Se ci telefonavamo, non sentivo altro che urla e minacce in sottofondo, finché non era lei stessa costretta a chiudere la comunicazione, prima che lo facessero i genitori; se le scrivevo, ogni cosa veniva bruciata, i suoi cassetti messi a soqquadro, le sue borse svuotate.
Era possibile questo? Nel pieno di un'era tecnologica? E Liliana aveva 28 anni! Pure accadeva. Nessuno ne comprendeva i motivi; neanche delle persone "all'antica" avrebbero fatto qualcosa di simile. No, erano persone che ce l'avevano con me, e me soltanto. E perché poi? Se la risposta poteva forse trovarsi in una frase che anni prima il padre aveva detto alla figlia, vale a dire "comportati sempre come se tutti volessero farti del male", questo non risolveva il problema.
Liliana sfiorì. Il suo sorriso scomparve, la sua allegria si dissolse. Inutili erano i miei baci e le mie carezze: se qualcosa, ogni volta più debole, rinasceva dentro di lei, poche ore, se non pochi minuti al giorno non potevano arrestare la valanga di parole che ogni giorno la tramortiva.
Liliana piangeva, dimagriva, appassiva. E io con lei.
Nessuno dei nostri amici era in grado di fare qualcosa; anzi, nessuno riusciva a capire cosa stesse accadendo, troppo illogico era il quadro che si era creato. Si parlava di genitori all'antica, di contrasti che col tempo si sarebbero aggiustati; ma col tempo le cose peggioravano, gli insulti diventavano più numerosi, più dolorosi, più crudeli.
Ribellarsi, andarsene di casa: inutile. Liliana era troppo debole per riuscire in qualcuna di queste cose. Nessun consiglio sembrava funzionare; un suo tentativo di chiedere aiuto a una zia si risolse in una promessa di magnifici regali se mi avesse lasciato ...
Sergio si rifece sentire, nonostante lei glielo avesse proibito. Le disse che i suoi genitori agivano così per il suo bene, che bisognava capirli, e che lui l'avrebbe aiutata a superare il momento difficile. Più volte si incontrò con i genitori; e dopo ogni volta gli insulti nei miei confronti trovavano nuovi spunti, nuova linfa, nuova fantasia.
Una cosa di cui presto mi accorsi fu che venivano usati contro di me fatti del mio passato di cui pochi erano a conoscenza, distorti e riveduti nei modi più appropriati; avere avuto altre relazioni, negli anni precedenti, diventò un segno di libertinaggio; aver cambiato più volte lavoro fece di me una persona non affidabile, uno che sarebbe finito male.
Come potevano sapere tutto questo? Sergio, era ovvio. Ma non solo: che ora lui potesse calunniarmi era plausibile; ma certe cose venivano dette in tempi e modi tali che a poco a poco mi accorsi che dovevano averle sapute molto tempo prima; quando Liliana era solo un'amica; quando io e Sergio eravamo "amici". Quando evidentemente Sergio, che io credevo amico, si divertiva a sparlare di me, e forse non solo di me, con tutti coloro dei quali era sicuro che non mi avrebbero mai riferito niente; Sergio, di cui vedevo, ora, come i cosiddetti "amici" servivano solo a far risaltare le sue "qualità", grazie alla generosa esposizione dei loro "difetti" ...
Sergio ...
E intanto Liliana stava ogni giorno peggio, e io con lei; pur di sfogarsi con me, raccontava ogni scenata nei minimi dettagli, aggiungendo alla nostra sofferenza una rabbia che montava dentro di me, tanto grande era l'ingiustizia che veniva commessa. Ma una rabbia che purtroppo non poteva esplodere, non riusciva a trovare sfoghi.
Stavo male, e nella sua ingenuità neanche lei capiva perché. "Sono io quella che deve soffrire; tu non c'entri", diceva.
Ormai ero arrivato al punto di poter conversare col mio PC; ma non era la stessa cosa che parlare con una persona. E d'altra parte nessuno sembrava comprendere veramente l'entità della tragedia che ci stava schiantando.
Nessuno poteva far niente. Nessuno capiva. Né uomini, né macchine.
Un giorno decisi che quanto subivo era troppo ingiusto; decisi che almeno una macchina poteva forse vedere la verità, visto che quello che stava accadendo sembrava troppo assurdo per la logica, per i pensieri umani.
E in preda a una furia, tanto più grande quanto grande era la sofferenza di Liliana, modificai il mio programma in modo che fosse in grado di giudicare chi avesse torto e chi ragione, tra i classici due litiganti; non pensavo a future applicazioni, in quel momento, e meno che mai ai guadagni; volevo solo giustizia, in un modo o nell'altro.
Ero obiettivo? Molti avrebbero pensato il contrario; ma io sapevo di esserlo; non avrei mosso un dito per farmi dare ragione 'barando'.
Lavorai giorno e notte; mangiavo e dormivo poco, né ne avevo voglia; mi ci impegnavo in preda quasi a un furore, acceso dalla rabbia che portavo dentro, sostenuto dalla disperazione che mi stringeva il cuore.
Il giorno che Liliana mi disse "Non potrò mai più essere felice", finii il programma, e cominciai a lavorare sulle tecniche di riduzione e codifica dei fatti da far valutare, sfruttando al massimo il lavoro fatto a suo tempo con l'ipervocabolario.
Il giorno che incontrai Liliana per l'ultima volta, senza saperlo, le regalai un sacchetto di monete di cioccolata; e lei, ricordandosi di quando era bambina, sorrise. Per l'ultima volta.
Lo stesso giorno risolsi gli ultimi problemi relativi alla codifica dei fatti; ora il mio programma poteva ricevere in input un numero illimitato di frasi, interpretarle, "pesarle", sviluppare le "priorità", e decidere, infine, quali avessero "valenza" maggiore, e di conseguenza, attraverso quella che io definivo una "regressione logica", trasformare tutto ciò in una specie di sentenza ...
Passarono altri giorni; eliminai una lunga serie di errori, di bugs, e di loop infiniti che potevano venire innescati. Poi, una sera, sentii che la soluzione era vicina, e cominciai con i test. Dapprima frasi semplici, casi di contraddizione elementari; poi salii nei gradini della logica, costruendo problemi sempre più complessi, ed eliminando a mano a mano gli ultimi errori che non mancavano di venir fuori.
Giunse la notte, ed io lavoravo, senza sentire stanchezza, solo con la mia rabbia e il peso che mi schiacciava il cuore; non sentivo Liliana da un bel po', ed avevo raggiunto un tale stato di sofferenza che il sonno era diventato un elemento inutile nella mia vita, e l'immagine che lo specchio mi rimandava era quella di un fantasma, magro e irriconoscibile.
Pure la mia voce dettava comandi al microfono, le mie dita correvano sui tasti, e la mia mente, sempre lucida, non poteva pensare ad altro che a lei, e al mio programma, fondendoli quasi in una entità indistinguibile.
Venne l'alba, e sentii in lontananza il rumore dei primi autobus; cominciai a codificare i fatti delle ultime settimane (era stato tutto così rapido, e così intenso), dapprima a fatica, poi, col passare dei minuti, con maggior naturalezza; talvolta dovevo fermarmi, controllare lo stato delle variabili interne, e se mi accorgevo di qualche errore nella mia codifica, tornare indietro e ricominciare.
Ma andavo avanti. La luce aumentò; le auto dei pendolari fecero sentire il loro rumore, gli autobus divennero più frequenti.
Infine, quando i rumori del traffico cominciarono a farsi più incerti, mi accorsi del sole che filtrava dalle mie finestre, e, quasi in trance, chiesi al programma, semplicemente, chi avesse ragione. Se io o 'loro'.
Ci sarebbero voluti alcuni minuti; l'intelligenza artificiale non è mai stata troppo tenera, in fatto di calcoli.
Poi il telefono suonò. Stancamente risposi, e per l'ultima volta trasalii, riconoscendo la voce, un tempo così dolce, di Liliana. Una voce monotona, stanca, invece. Come non avevo mai sentito.
Chiamava da casa sua, e il silenzio profondo, assoluto, che diversamente da quanto era sempre stato nelle ultime settimane accompagnava le sue parole, rimase impresso in me, da allora e per sempre, più delle parole stesse.
Non ricordo molto, del resto. Frasi del tipo "il nostro amore era come una macchina che non ha superato il rodaggio"; o ancora "non possiamo comportarci come se gli altri non esistessero"; e anche "bisogna sapersi accontentare".
E infine, l'ultima frase, l'unica, la sola che ricordo veramente bene: "praticamente mi sono rimessa con Sergio".
Non so se dissi qualche cosa; poco importa, del resto. Dopo, mi trascinai nuovamente davanti al PC, sentendo all'improvviso il peso delle tante notti insonni, delle ore passate davanti al monitor, degli sforzi fatti nelle ultime settimane.
Un velo di lacrime mi appannò la vista; ma prima di crollare riuscii a intravedere lo schermo, su cui lampeggiava la risposta del mio programma.
Una faccina sorridente. E la scritta, gigantesca: "Hai ragione tu".


Questo racconto non mi ha mai convinto pienamente, perché le due parti da cui è composto non sono ben fuse tra di loro; nonostante questo pare che sia uno di quelli più apprezzati dai miei "lettori". Quando ci penso, mi viene il dubbio che gli eventi che ho narrato non siano poi così inconsueti, nel nostro mondo "civilizzato".