Non ho mai avuto una grande successo con le donne, e il fatto che la maggior parte di quelle che ho incontrato non fossero comunque libere e/o disponibili, a differenza di quanto accade nei film, mi ha sempre fatto pensare a quanto sarebbe stato utile (per me, almeno) un dispositivo come quello di cui si parla in questo racconto (anche questo è in realtà un romanzo breve, o "novella"). Dopo molti anni, decisi che era giunto il momento di scriverlo.


C'ERA UNA VOLTA

Cosa mai, per tutti i diavoli, poteva significare quello che vedevo?
Dovevo credere ai miei occhi?
Potevo?
(E.A. Poe, "Gli occhiali")

1

C'era una volta ...
"Un re!", direbbero subito i miei lettori, piccoli o grandi che siano.
Ma, ancora una volta, sbaglierebbero: non era un re, né una regina, e meno che mai un pezzo di legno ciò che mi tornava in mente di tanto in tanto, specialmente quando il lavoro si faceva più noioso del solito e le chiacchiere del cliente di turno davanti alla mia scrivania svanivano in un brusio indistinto.
Decisamente non era un pezzo di legno; era un gruppo di amici, quattro giovani che si erano conosciuti all'università di Milano una quindicina di anni prima: accomunati da una voglia di vivere più intensa del solito, si cullavano, chi più, chi meno, nel sogno di una realtà priva di quelle ipocrisie e di quelle sfumature ambigue che il mondo già cominciava ad offrire loro.
Ma quelli erano anni in cui le utopie erano reali, e la realtà un incidente di percorso.

Sergio era il letterato del gruppo; forse uno dei pochi studenti ad essersi iscritto a Lettere per passione piuttosto che per cercare una laurea facile, non nascondeva le sue ambizioni di diventare qualcosa di meglio del solito professore di italiano.
Brillante nello scrivere come nel parlare, aveva una fantasia straripante, battute pronte per ogni occasione, e una raccolta senza fine di barzellette.
Scriveva di tutto, e bene: racconti originali e dal ritmo serrato, poesie ricche di romanticismo. Aveva scritto anche dei romanzi, dedicandosi ad esplorare personaggi sempre all'inquieta ricerca di sé stessi, ma nondimeno sempre lontani dalle loro mete. Personaggi eternamente in viaggio, poco importa se in qualche isola dei mari del Sud o in una Rimini casareccia e poco felliniana; uomini e donne malati di solitudine, che solo nelle ultime pagine riconoscevano come tali le illusioni che ne avevano segnato le strade.
"Mi pubblicheranno", ripeteva sempre Sergio, con il sorriso sulle labbra. E poi aggiungeva: "Hanno pubblicato Dante, Ariosto, Manzoni: non gli costerà niente pubblicare anche il sottoscritto!"
E infatti fu pubblicato; senza grande successo, senza clamore, e solo con poche delle sue molte opere: ma era destino che ci riuscisse. In quello, come in altre cose.

Ruggero, studente di architettura, era lo sportivo. Da ragazzo correva i 100 metri piani, e aveva vinto un'edizione dei giochi della gioventù; ma crescendo si era reso conto che per arrivare ai massimi livelli avrebbe dovuto stravolgere la sua vita a forza di allenamenti disumani. E probabilmente anche a forza di sostanze proibite.
Abbandonata l'atletica, si era dato a sport meno stressanti: dapprima l'alpinismo, e quindi la vela, che aveva scoperto a poco a poco grazie a lunghi soggiorni di studio in Grecia, soggiorni che finivano sempre per tramutarsi in vacanze fuori programma. Vacanze molto invidiate; del resto era di famiglia ricca, e se lo poteva permettere.
Ma quante altre cose si poteva permettere! Tutto sembrava riuscirgli con facilità: gli studi, che portava avanti con voti altissimi a dispetto di tutto il tempo dedicato allo sport; le donne, che stravedevano per lui, forse attirate dalla sua fama di atleta, forse dalla simpatia di cui sapeva circondarsi. O forse semplicemente perché era davvero il migliore di tutti noi: era il solo che non facesse nulla per sembrarlo, e questo perché era anche l'unico che riuscisse a vivere realmente senza compromessi: e per di più, lasciando la sua famiglia nell'ombra.

Federico era lo scienziato. Ma anche il più calmo, il più sereno: l'unico capace di non perdere mai la calma in ogni circostanza, di restare lucido e impassibile quando perfino il sorridente Ruggero sembrava perdere le staffe; l'unico, oltretutto, a sfoggiare certezze, grazie ai suoi studi di fisica: l'aveva preferita alla matematica perché questa, diceva, "era troppo astratta per riuscire davvero interessante", a differenza della prima, le cui leggi "governavano il mondo in modo così trasparente da riuscire meraviglioso."
Certo, noi altri non potevamo condividere questa meraviglia, ma avevamo comunque una grande fiducia nella sua saggezza e nelle possibilità delle sue amate scienze; del resto non si interessava solo di fisica, ma anche di chimica, di biologia, e di informatica: era uno di coloro che la gente definisce 'maghi' del computer, strumento che adoperava principalmente per complesse simulazioni di astrofisica, altro ramo della scienza che lo appassionava in modo particolare.
Era stato uno dei primi a conoscere Internet, e a servirsene con profitto per i suoi studi; aveva intrecciato una fitta rete di corrispondenze con scienziati e studenti all'estero, specialmente negli Stati Uniti, dove la ricerca, a suo dire, offriva possibilità ben maggiori rispetto all'Italia, anzi, all'intera Europa.
Ma al di là dei suoi castelli di sapienza non era facile scorgere il fondo del suo animo: e a volte, più che elargire saggezza, dava invece l'impressione di volersene restare banalmente al di fuori della mischia. Quieto vivere, lungo vivere: una frase mai pronunciata, ma tante volte letta nei suoi occhi.
Intanto, viveva.

Infine c'ero io, il mago dell'economia. Sergio, Ruggero e Federico erano unanimi nel considerare mortalmente noiosi, oltre che incomprensibili, i miei studi; pure a me piacevano. Ricordavo con una punta di orgoglio e un po' di nostalgia quando ero bambino, e i crolli in borsa si alternavano ai recuperi: gli adulti ne parlavano spesso, ma cosa significassero i loro discorsi, da dove venissero e dove scomparissero tutti quei soldi che ai miei occhi sembravano ruotare freneticamente intorno a me, tutto questo era un mistero; finché non decisi che ne avrei saputo più degli adulti, e sarei diventato come Topolino sulle locandine di Fantasia: un mago capace di dominare i vortici intorno a sé, di orientarli a suo piacimento, di comprenderne ogni sfumatura. Solo che sarebbero stati vortici di denaro, e non più di scope incantate.
E così era stato; e a Federico che trovava astrusa e priva di ogni logica la materia che studiavo, potevo sempre rispondere che sarebbe risultata, alla fine, molto più produttiva della sua meravigliosa fisica.
Certo, talvolta mi sentivo accusare di 'materialismo': molti pensavano che i miei studi nascondessero una voglia di arricchirsi, addirittura un'avidità interiore che in realtà non sentivo affatto: ma anche nella mia facoltà gli studenti veramente appassionati erano così pochi che finivo per comprendere, ed anche accettare, i sospetti altrui.
In fondo, io, ed io solo conoscevo la verità: volevo ancora diventare come il Topolino della mia infanzia; e se fossi diventato un vero stregone, invece di un semplice apprendista, tanto meglio.

Fui riportato alla realtà dal suono del telefono.
Quanti anni erano passati? Quasi quindici, e la realtà non mi piaceva.
Mancava poco alla pausa pranzo, e nessun cliente era seduto alla mia scrivania, in quel momento, a borbottare lamentele incomprensibili.
Risposi.
"Maurizio! Come stai?"
Federico.
"Come sempre. E tu?"
"Ehhhh ... io bene, credo."
"Credi? Qualcosa non va?"
"Pausa pranzo da me?"
"Pausa pranzo da te: come ai vecchi tempi!"
"Ma se ci siamo visti dieci giorni fa!"
Federico abitava in Corso Magenta, non lontano dalla mia banca, e capitava spesso che, durante la pausa pranzo, lo andassi a trovare. Certo non lo facevo nella speranza di assaggiare chissà quali manicaretti, che tutta la sua scienza non era capace di creare dal nulla; ma la sua serenità, immutata negli anni, e così pure la sua capacità di scherzare e di sorridere erano spesso l'unico diversivo che mi si offriva di quei tempi.
"Federico ... hai qualche problema?"
"Non proprio. Ma scommettiamo che farai tardi a rientrare in banca?"
Decisamente impossibile, questo.
"Perderesti la scommessa."
"Ho qualcosa da farti vedere, Maurizio. Qualcosa di importante."
E proprio in quel momento l'ultimo cliente della mattinata venne a sedersi davanti alla mia scrivania.
"Di che si tratta?"
"Vorrei che te ne rendessi di conto di persona. Maurizio, ho bisogno di un tuo consiglio."
Il cliente mi osservava con aria interrogativa; era un tipico borghese di mezza età, bisognoso di consigli che poi non avrebbe messo in pratica.
"Forse ti sei deciso ad assumermi come tuo consulente finanziario?"
"Magari fosse solo questo!"
Infatti non ne aveva bisogno. Federico teneva tutti i suoi soldi nella mia banca, ma curava da sé, e con successo, i propri investimenti.
"Ma allora, che ti succede?"
Federico esitò un momento prima di rispondere. Dall'altra parte della scrivania, il mio cliente cominciò a tossicchiare, e ad agitarsi sulla sedia.
"Te lo ripeto: voglio farti vedere una cosa importante, e ho bisogno di un tuo consiglio, Maurizio."
"Così importante che mi farai tardare?"
"Ci scommetto. Guarda che ti aspetto!"
Fissai il mio cliente, e decisi di non insistere. Mancavano solo dieci minuti, e in fondo non mi sentivo curioso.
"Sarò da te tra un quarto d'ora. Sempre che mi lasci ai miei clienti!"
Riattaccai; ma una punta di curiosità dovevo comunque averla, visto che solo una parte di me si dedicò infine a compiacere quell'ultimo, noioso cliente. L'altra tornò ai suoi ricordi, riavvolgendo ancora una volta un film visto e rivisto.

Ci eravamo laureati col massimo dei voti.
Trovare un lavoro che rispondesse alle nostre aspirazioni non fu altrettanto facile: ci vollero anni, e non tutti ne fummo ugualmente soddisfatti.
Io ero diventato bravo; quel Topolino nei panni dell'apprendista stregone si era tramutato in qualcosa di più di un sogno infantile. Fu così che, poco tempo dopo la laurea, riuscii a trovare un posto come consulente finanziario presso una filiale del Banco Meneghino; e in un paio d'anni questa filiale, grazie alle mie idee e ai miei consigli in fatto d'investimenti, aveva raddoppiato la sua clientela.
Ben difficilmente, però, avrei fatto carriera in quella piccola banca; e quando una filiale del ben più importante Credito Lombardo cercò a sua volta un consulente finanziario, mi presentai, e il posto fu mio: i risultati che avevo ottenuto fino ad allora erano già tali da spianarmi la strada.
Quando anche questa filiale ebbe raddoppiato la sua clientela, il direttore di una delle sedi centrali andò in pensione, e a dispetto della mia giovane età mi venne chiesto se ero interessato a prenderne il posto.
Lo ero.

Federico aveva avuto una carriera più tormentata; dopo un breve periodo passato ad insegnare matematica e fisica in una scuola privata, era entrato in un istituto di medicina sperimentale: specialista soprattutto in biofisica, la sua abilità nell'ideare simulazioni computerizzate era quello che serviva ai dirigenti dell'istituto, che speravano di trovare delle cure 'alternative', ma efficaci, contro il cancro. E Federico era in gamba: grazie al suo lavoro i risultati sarebbero forse arrivati; ma le continue polemiche, anche sulla stampa, sui metodi di ricerca poco ortodossi dell'istituto, portarono alla sua chiusura nel giro di qualche anno.
Federico tornò a fare l'insegnante, in attesa di un'occasione migliore.

A Ruggero era andata piuttosto bene: aveva trovato tra i laureati in Architettura altri due veri appassionati di arte come lui, ed era riuscito a fondare dal nulla una nuova rivista di archeologia. Lentamente ma inesorabilmente, la loro passione, la loro competenza molto superiore alla media, e quel pizzico di fortuna che aiuta davvero gli audaci, li avevano portati sulla cresta dell'onda; e nel giro di qualche anno Ruggero si trovò a passare la sua vita sempre in giro per il mondo: se non erano i servizi fotografici, che lo resero presto assai conosciuto nell'ambiente, erano le gare di vela, a cui sapeva dedicarsi con entusiasmo immutato, e, col tempo, anche con qualche successo.
E gli amici? Per quanto non fosse più una cosa semplice, ogni tanto Ruggero trovava anche il tempo di incontrarsi con noi; tornava da un viaggio, poi si andava a cena tutti insieme, e poi via per un altro viaggio.
Quelle cene, con i suoi racconti di luoghi esotici ... erano tra i momenti più intensi della nostra amicizia, quelli che ricordavamo più a lungo.
Cosa abbiamo più fatto, dopo?

Infine, Sergio: poche idee, ma chiare. Anche se nutriva ben altre ambizioni, aveva preso l'abilitazione all'insegnamento; di certo non voleva diventare un eterno supplente, come troppi laureati in Lettere. E così, dopo aver passato molto tempo a studiare la situazione delle cattedre in tutto il Nord Italia, fece domanda per un piccolo paese del Friuli: l'anno dopo vi era già supplente in pianta stabile, e dopo altri due anni riuscì ad entrare in ruolo. Aveva fatto bene i suoi conti, evidentemente. Infine, il miracolo: ancora tre anni di quello che lui stesso definiva "il suo esilio", e riuscì a farsi trasferire a Milano.
Così le cene a quattro diventarono più frequenti. Inoltre, nello stesso periodo, Sergio riuscì finalmente a vincere il concorso giusto, e a farsi pubblicare un romanzo; e poi, le pubblicazioni diventarono come le ciliegie: l'una tirò l'altra, e anche se il grande successo sembrava ancora un'utopia, la nostra ammirazione per lui crebbe.
In realtà nessuno di noi aveva mai creduto fino in fondo nelle sue possibilità: e sì che tutti ne riconoscevamo la bravura come scrittore; ma pensavamo che alla fine si sarebbe accontentato del posto fisso da insegnante, come tutti i laureati in Lettere. E invece ci sbagliavamo: quando Sergio voleva qualcosa, la otteneva. E poiché voleva sempre qualcosa in più di quanto aveva lasciato supporre, non mancava mai di stupirci.
Stupire scrivendo era il suo mestiere, d'altra parte; ma presto ci avrebbe stupito ancora di più.

Mi riscossi, con la mente immersa in pensieri poco gentili. Davanti a me non c'era più nessuno.
"Signor direttore ..."
Tornai finalmente alla realtà, al mio appuntamento con Federico.
"Signor direttore, noi andiamo a pranzo."
Due dei miei impiegati, gentili come sempre. Mi alzai, cercai di riordinare la massa di fogli sparsi sulla mia scrivania, e mi avviai con loro verso l'uscita.
"Mangia con noi, signor direttore?"
Salutammo la guardia all'ingresso, e fummo fuori, sotto il cielo eternamente lattiginoso di Milano, immersi nel caldo di fine Giugno e nei rumori assordanti del centro storico.
"Non oggi, ragazzi. Sono a pranzo da amici."
Non oggi, ma neanche ieri. Di solito preferivo pranzare da solo, in uno dei molti bar del centro, confuso tra altri anonimi uomini d'affari, e immerso nel rumore del traffico incessante; anche se quel giorno, dopo una mattinata di ricordi, la compagnia dei miei impiegati non mi sarebbe dispiaciuta.
Ma Federico aspettava i miei consigli, e qualunque cosa avesse da mostrarmi, era così importante da farmi tardare.
Forse.
"Allora buon appetito, signor direttore! E approfitti dei suoi amici per fare un vero pranzo."
Sorrisi inconsciamente, mentre m'incamminavo dopo aver salutato i miei impiegati: un vero pranzo era l'ultima cosa che potessi aspettarmi a casa di Federico. Da sempre abituato a mangiare scatolette e pizza al taglio, per risparmiare tempo prezioso per i suoi studi, le sue abitudini erano addirittura peggiorate in seguito al suo lungo soggiorno in America: dopo tre anni di hamburger e patatine fritte era ormai irrecuperabile.

Quel soggiorno in America. I miei pensieri tornarono, più tumultuosi che mai.

Molta gente pensava che noi quattro fossimo più interessati ai nostri studi e ai nostri hobby che all'altro sesso: poche relazioni, e nessuna veramente seria; nessun fidanzamento, e meno che mai una convivenza o addirittura un matrimonio.
Ma il fatto è che nessuno di noi era pronto per una relazione seria; e non tanto per l'interesse verso lo studio e, in seguito, verso il lavoro: quanto per quella voglia di indipendenza che ci aveva unito nei primi tempi, e che anche dopo molti anni era ancora così forte da tenerci lontano dai legami affettivi.
Altri avrebbero semplicemente detto che eravamo ancora immaturi.
E credo che non fosse del tutto sbagliato. Ma è forse scritto quando e perché bisogna crescere?
Poi, un giorno, accadde: e Cristina entrò nella mia vita. Era una mia nuova impiegata, assunta nella mia banca da poche settimane. Io ne ero il direttore da pochi mesi, e il mondo mi sorrideva a tal punto che quel giorno la guardai in un modo diverso: vidi sorridere anche lei, e per un attimo lei e il mondo furono la stessa cosa.
Ci sposammo un anno dopo, e Sergio, ancora in Friuli a quell'epoca, ottenne a fatica qualche giorno di permesso per potermi fare da testimone.
Cosa potevo desiderare di più? Il suo temperamento romantico era il giusto contrappunto per uno come me, sempre preso da calcoli finanziari e da riunioni di lavoro; per lei lavorare non era un dovere o una ragione di vita, né era attirata dalla mia posizione, come qualche lingua un po' maligna aveva insinuato. Anzi, poco tempo dopo il nostro fidanzamento si fece trasferire in un'altra banca: e un po' alla volta le malelingue tacquero.

Cosa potevo desiderare di più? Avevo la sua dolcezza, il suo sorriso irresistibile, la sua pazienza, le sue carezze quando tornavo tardi dopo una delle mie riunioni di lavoro: la mia gioia era senza limiti e la nostra felicità perfetta.
Dopo qualche anno cominciammo seriamente a pensare che, forse, potevamo anche mettere al mondo un figlio. Quanto mi sembravano lontani i tempi in cui un legame così forte e stabile mi sembrava una follia in grado di intristire la mia vita!
Gli altri amici, invece, continuavano la loro vita allegra di sempre. Ma presto o tardi, ne ero ormai convinto, sarebbe giunto anche il loro momento: ed ero pure convinto che, come era successo a me, non avrebbero mai rimpianto gli anni passati.

Sì: stavo seriamente pensando ad un figlio, e nello stesso tempo la mia carriera andava a gonfie vele: forse un posto nel consiglio di amministrazione del Credito Lombardo non era poi così lontano; ma ad un tratto ... è strano come ci si abitui a leggere sui giornali certi fatti che capitano agli altri, e come ogni volta si pensi, quasi cercando di esorcizzarne la possibilità, "questo a me non succederà."
Quante volte avevamo letto di incidenti stradali, o di persone uccise casualmente durante una sparatoria? Erano sempre persone comuni, anonime: ognuno di loro avrebbe potuto essere uno di noi, uno che pochi minuti prima aveva salutato i suoi amici, e poi, all'improvviso, aveva smesso di esistere.
Quante volte? E così, quando certe cose capitano proprio a noi, magari seguendo un copione già scritto mille volte, l'effetto è ancora peggiore.
Ero stato a Lione quasi una settimana, con altri dirigenti del Credito: cinque giorni di intenso lavoro, in vista di un possibile accordo commerciale tra la nostra banca e il potente Credit Lyonnais; una visita guidata della città al sabato, e il rientro a Milano la domenica mattina avrebbero concluso il nostro soggiorno francese. Ma per un errore dell'agenzia di viaggi che aveva organizzato la trasferta, io ed altri due colleghi scoprimmo di avere in mano un biglietto aereo di ritorno per sabato mattina invece che per domenica.
Poco male, almeno per me: conoscevo bene Lione, e preferivo di gran lunga passare il week-end con Cristina. Presi quell'aereo, senza avvertirla del contrattempo: volevo farle una sorpresa.

Una sorpresa ... col lavoro che facevo queste occasioni erano così rare; ma vederla saltare per la gioia, e riempirmi di baci, le rendeva ancora più preziose.
Fu così che, secondo copione, rientrai nella nostra casa di Milano verso l'ora di pranzo: senza far rumore, aspettandomi di trovarla in cucina, in procinto di prepararsi qualcosa da mangiare; e, non trovandola in cucina, né in soggiorno, mi diressi finalmente verso la camera da letto, da cui provenivano dei rumori attutiti.
Ero un po' stupito che fosse ancora a letto, a quell'ora, ma questo dettaglio scomparve come neve al sole quando, secondo copione, vidi che Cristina era sì a letto, ma non da sola.
Mentre una parte della mia mente cominciava a ripetere "non io ... non io ... non io", vidi, con la parte restante, i due amanti che giacevano avvinghiati nel nostro letto tirarsi su e, seminudi, fissarmi non con stupore, ma con odio.
L'uomo con Cristina era Sergio.
Le due parti della mia mente cominciarono a frantumarsi, mentre qualcosa dentro di me iniziò a far male, anche fisicamente; ma poi Cristina si tirò su del tutto, e urlò.
"Bastardo figlio di puttana! Perché sei tornato prima, perché?"
Questo non era più nel copione; mentre vedevo appena Sergio sogghignare compiaciuto, mi dissolsi completamente, dividendomi tra due mondi inconciliabili, due universi uguali ed opposti, ma entrambi dolorosamente reali.
Due universi che non si sarebbero più riuniti.

La casa di Federico era a meno di un chilometro dalla mia banca; vi si era trasferito al suo ritorno dall'America, dopo aver venduto la villetta in periferia in cui abitava prima. Era diventato un cittadino pienamente integrato nel caos della metropoli: e non era certo questo il solo cambiamento che tre anni a New York avevano indotto in lui.
Schiacciato dal peso di ricordi dolorosi, avanzavo quasi a fatica; il sole di fine Giugno picchiava più del solito, o erano i miei sensi ad alterarsi ancora una volta, nel ricordo di quanto era successo anni prima? Mi chiesi, osservando la folla che mi circondava, incessante e indifferente, se non avrei finito anch'io, come il protagonista di un vecchio film di fantascienza, per scoprire un mostro in ogni persona intorno a me.
E se fossi riuscito in questo, chi sarebbe stato il mostro? Tutti loro, o piuttosto io stesso?
Se avessi potuto scacciare quei ricordi!

Io e Cristina ci separammo e lei andò a vivere con Sergio; per me cominciò, all'improvviso, una vita ben diversa da quella di prima; una vita in cui dormire serenamente era diventato un lusso.
Credevamo di essere liberi, indipendenti, moderni: ma quando la donna che ami finisce a letto con un tuo amico è dura, sempre e comunque. Forse sarebbe stato diverso se tutto fosse avvenuto alla luce del sole; se lei mi avesse detto "Maurizio, è finita; è Sergio che amo. Mi dispiace." Forse avrei retto passabilmente; forse non avrei avuto motivo di odiare un amico.
Forse sono solo parole, dopotutto. Ma contano poco di fronte al fatto che, come venni a sapere successivamente, la storia tra Cristina e Sergio andava avanti in segreto da anni: praticamente da quando lui era tornato dal Friuli, e forse addirittura da quando, facendomi da testimone, aveva cominciato a conoscerla meglio.
Conta ancor meno di fronte a quello che dovetti sentire in seguito. Il "bastardo figlio di puttana" fu solo l'inizio di una lunga serie di affermazioni sul mio conto in confronto alle quali quel primo insulto sembrò quasi un complimento.
Venni a sapere che avevo sempre trascurato Cristina per il lavoro; che l'avevo adoperata per il mio piacere come fosse stata una bambola; che per me contavano solo la banca, i soldi e le cene con gli amici; e che l'avevo sedotta, a suo tempo, perché lei, semplice impiegata, non aveva avuto il coraggio di negarsi ad un suo superiore.
Seppi anche che volevo a tutti i costi metterla incinta nonostante lei non si sentisse per niente pronta al ruolo di madre: meno che mai, oltretutto, con un marito come me. Seppi che Sergio, invece, le aveva fatto conoscere il vero amore, che era una persona buona, gentile e disinteressata, e che, infine, malediva il giorno in cui aveva conosciuto me prima di lui.

Non capivo più nulla: avrei voluto sentire Ruggero e Federico, avrei voluto rendermi conto se Cristina stava parlando di me o di un mio doppione di cui avevo, fino ad allora, ignorato l'esistenza. Ma Federico assunse il suo tipico atteggiamento neutrale, evitando accuratamente di prendere posizione e preferendo, piuttosto, dispensare filosofia a piene mani. Comunque, poche settimane dopo partì per New York, dove aveva trovato una consulenza che poteva dare una svolta ai suoi studi e alla sua carriera.
Ne tornò tre anni dopo: più ricco, più soddisfatto, e sposato a sua volta con Helen, una psicologa italo-americana che aveva lavorato con lui per qualche tempo, e che si trasferì volentieri a Milano, aprendovi con gran successo un consultorio per sole donne.
Ma ormai erano passati tre anni.
Ruggero, invece, era appena partito per la regata più importante della sua carriera sportiva, una transatlantica da Bordeaux a Miami; seppi che, dalla barca, aveva telefonato a Federico, che lo aveva informato di quanto era successo; seppi che avevano parlato a lungo, e che Ruggero gli aveva promesso di prendere il primo aereo da Miami, appena sbarcato, per tornare subito a Milano e precipitarsi da me a darmi tutto il conforto possibile.
Seppi infine che, a soli due giorni di navigazione dalla Florida, una tempesta aveva sorpreso le imbarcazioni; che la sua si era rovesciata, che l'equipaggio era finito in mare, e che tutti erano stati ripescati dai soccorritori.
Tutti tranne lui.
Qualche giorno dopo lo ritrovarono a Cuba, su una spiaggia non lontano da l'Avana.
Sergio non venne ai suoi funerali.
E la sua rivista, senza più il suo contributo, sparì dalle edicole nel giro di qualche mese.

Mi ritrovai così, nel giro di pochi giorni, senza amici, senza la donna che amavo, e col morale a pezzi per le circostanze in cui tutto questo era accaduto. Sul lavoro tenni duro, con un grande sforzo, ma gli affari della mia banca cominciarono a ristagnare, e il posto nel consiglio di amministrazione si allontanò.
Mi ponevo continuamente delle domande, alla vana ricerca di risposte alla catastrofe che si era abbattuta su di me. Ero davvero come mi descriveva Cristina?
Ero attaccato al mio lavoro, questo era vero; facevo spesso più tardi di quanto avrei dovuto, era vero anche questo. Né avrei potuto evitarlo: un direttore di banca è molto più di un semplice impiegato o di un consulente finanziario, e d'altronde anche quello che guadagnavo era molto di più.
Cristina si era mai lamentata? Mai, che io ricordassi, e di certo non con me. Ma io la amavo, e se lei mi avesse chiesto di cambiare lavoro per stare di più con lei, lo avrei fatto.
E d'altra parte, quante volte avevo rinunciato a delle riunioni di lavoro per starle vicino, magari senza neanche dirglielo? Lo avevo fatto ogni volta che me lo aveva chiesto, ogni volta in occasione di ricorrenze, tutte le volte che lei stava male o che mi era sembrata più bisognosa di affetto.
Ma più mi interrogavo, non riuscendo a trovare dentro me stesso qualcosa che corrispondesse a quanto Cristina andava dicendo di me, più mi convincevo che qualcosa di sbagliato doveva esserci, che se la donna che avevo amato così tanto era sicura di tante mostruosità, allora doveva essere così per forza. Chi era il vero Maurizio? Il marito affettuoso e premuroso che io ricordavo o il mostro di cui si parlava?
Passavo ore, notti intere a rovellarmi sul problema senza trovare una soluzione, alla vana ricerca di un compromesso che potesse riunire i due Maurizi in un'unica persona.
Non sapevo più chi ero.

Gli anni passarono: Federico tornò dall'America con Helen, ed io, senza aver mai trovato le risposte che cercavo, decisi che dovevo fare uno sforzo, e superare quella situazione. E la storia sembrò ripetersi: una nuova impiegata, nella mia banca, risvegliò, se non il mio amore, perlomeno le mie simpatie, e cominciai ad interessarmene discretamente.
Passavo spesso qualche minuto a chiacchierare con lei, attirato dalla sua timidezza e da una dolcezza interiore che pensavo di intravedere dietro i suoi occhi chiari; ma non avevo il coraggio di fare un passo decisivo, forse indeciso sui miei sentimenti, forse non ancora pronto a un tale passo. Però le mie conversazioni sembravano interessarla, e talvolta mi riusciva di strapparle un timido sorriso che mi confortava, e mi spingeva sempre più verso quel momento così importante.
Finalmente trovai una buona scusa per invitarla a cena: avevamo da controllare da cima a fondo la pratica di un cliente, e le chiesi se non preferiva farlo con più tempo e tranquillità, a casa mia.
Lei rimase in silenzio, e per qualche momento rimase assorta, come se avesse dei dubbi sulla decisione da prendere; infine, declinò gentilmente l'invito, e io ritenni di non insistere, e di riconsiderare meglio i miei sentimenti prima di tornare alla carica, in futuro.
Ma, due giorni dopo, fui chiamato nella sede centrale del Credito, dove il direttore generale in persona mi mostrò una lettera raccomandata della mia impiegata, in cui mi si accusava di "pressanti e insistenti attenzioni" che avevo messo in atto su di lei negli ultimi tempi, attenzioni sfociate infine in vere e proprie "molestie e proposte indecenti."
Per mia fortuna, il direttore generale aveva imparato a conoscermi bene; sapeva che non sarei mai stato capace di una cosa simile, e qualche domanda posta con noncuranza agli altri miei impiegati confermò le sue supposizioni; me la cavai con un richiamo ufficiale da parte della direzione, richiamo in cui mi veniva ricordato di non mischiare lavoro e interessi sentimentali eccetera; la mia impiegata fu trasferita in un'altra sede, dove in seguito diventò consulente finanziaria.
Evidentemente, non era affatto un tipo romantico come Cristina.

Io tornai a passare le mie notti domandandomi chi ero.
I miei dubbi tornarono a galla, anche perché non erano mai andati veramente a fondo: chi ero veramente? Era possibile che quello che dicevano di me fosse vero? I dubbi diventarono angosce, e poi tormento continuo; dormivo male, e quando dormivo mi svegliavo spesso, col petto che mi doleva, trafitto da dolori lancinanti di cui intuivo la causa psicosomatica.
E se davvero fossi stato un mostro? Il problema avuto con la mia impiegata mi aveva fatto intravedere una realtà fino ad allora ignota: una realtà in cui non solo ero veramente quell'individuo abbietto, dedito solo al denaro e pronto a calpestare i sentimenti altrui che molte persone riconoscevano in me, ma una realtà in cui non potevo fare il bello e il cattivo tempo a mio piacimento; se davvero ero un mostro, avrei dovuto pagare per le mie azioni. E il richiamo della direzione sarebbe stato soltanto l'inizio.
Il tormento crebbe; Helen mi consigliò uno psicanalista bravo e fidato, e mi ci recai con molte speranze.
Ma un anno dopo, con reciproca insoddisfazione, interrompemmo la terapia, che non aveva prodotto risultati: forse perché in me non c'era nulla che non andasse, tranne una tendenza a scegliere le compagnie sbagliate? Comunque i miei dubbi rimasero in agguato, pronti a mordere e a tormentare le mie notti.

Tempo dopo, conobbi un'altra ragazza: era una collega di Federico, che aveva trovato un buon posto come insegnante di astrofisica al planetario di Milano. Si chiamava Luisa, era cordiale, simpatica e dimostrava per me un interesse che da tempo non riscontravo in una donna. Uscimmo insieme, una, due, tre volte; stavolta non ci furono problemi, e tutto sembrava filare per il verso giusto, nonostante io mi muovessi coi piedi di piombo, e stessi molto sulla difensiva. Alla fine, durante una gita a Pavia, trovai il coraggio per una dichiarazione in piena regola, dopo averle regalato, nell'impulso del momento, un mazzo di rose e un paio di orecchini.
Ma lei stette in silenzio per un po', cercando di trattenere a stento una risata; finché questa non le venne fuori a dispetto dei suoi sforzi, sollevando fra di noi un muro di angoscia.
Era fidanzata, mi disse, e si sarebbe sposata di lì a pochi mesi.
Persi la testa; me ne andai e non la rividi più. Ma in seguito seppi da Federico che mi aveva definito un "villano" e un "mentecatto", e che era rimasta molto seccata dalle mie proposte; era molto innamorata del fidanzato, e non si sarebbe mai aspettata da me una tale mancanza di rispetto.
Ricordavo che lei non aveva mai accennato al fatto di essere fidanzata, ma questo serviva a qualcosa? I miei dubbi si dileguarono, ed io non ebbi più bisogno di pormi delle domande, e di cercare un'impossibile compromesso tra le mie due personalità: era ormai chiaro che ero veramente un mostro, che probabilmente il mio attaccamento al denaro era troppo radicato dentro di me, e che la mia anima ne era stata completamente corrotta. Evidentemente vedevo distorta ogni cosa, e analogamente al protagonista de 'Il male oscuro', solo l'isolamento mi avrebbe impedito di nuocere ancora: se poi avevo il diritto di continuare a vivere. Ne hanno, i mostri?
Non sarei mai diventato Topolino; il mio vecchio sogno si perse insieme ai ricordi felici.
Piombai in una profonda depressione, e non feci più nulla per nasconderla, né per uscirne; mi restavano soltanto il mio lavoro, che cercavo di portare avanti senza alcuna traccia dell'entusiasmo di un tempo, e le mie scappate a casa di Federico, che cercava invano di riscuotermi raccontandomi delle sue aspettative per il futuro, dei progressi compiuti dalla scienza negli ultimi tempi, delle possibilità, anche sociali, offerte dal tumultuoso sviluppo della telematica.

I mostri non hanno aspettative.

2

L'appartamento di Federico ed Helen era piccolo, ma funzionale: un grande soggiorno all'americana, le cui finestre davano su Corso Magenta, con ampi divani accostati alle pareti e nel centro della stanza un magnifico tappeto persiano, regalo di un facoltoso zio del mio amico; uno studio, zeppo di libri fino al soffitto, e una camera da letto piccola ma ben arredata. Se il bagno era ampio e confortevole, con una grande vasca per l'idromassaggio, la cucina, del resto ben poco usata, era stretta e scomoda. Federico ed Helen mangiavano quasi sempre fuori, e quando restavano in casa si accontentavano di scatolette e pasti precotti.
"Maurizio! Qual buon vento?"
Dietro gli occhiali che lo facevano vagamente assomigliare al Peter Sellers del dottor Stranamore, il mio amico sorrideva, cercando, ancora una volta, di strapparmi alla mia eterna malinconia.
Sorrisi a mia volta, e mi richiusi la porta alle spalle.
"Vento di consigli, buon Federico. La memoria fa cilecca?"
Federico lanciò uno sguardo quasi paterno al fedele computer portatile che faceva mostra di sé sul tappeto, insieme ad alcuni quotidiani. Anche l'ordine non era mai stato il suo forte.
"Non preoccuparti: quando sarò vecchio e smemorato, e verrai a trovarmi in un ospizio, ci sarà sempre 'lui' a ricordarmi ogni cosa degli amici."
Sorrisi nuovamente ai suoi tentativi di mettermi di buon umore, e mi lasciai cadere sopra uno dei divani.
"Allora siamo tutti schedati! Suvvia, dammi da bere."
"Ai suoi ordini, signor direttore."
Dal capace mobile bar che occupava l'angolo opposto del soggiorno emersero una bottiglia di Martini, quasi piena, e due bicchieri. Era difficile trovare da Federico qualcosa di buono da mangiare, e spesso bisognava accontentarsi di quello che aveva da bere.
Accettai volentieri il Martini. Questa di bere spesso alcolici era un'altra delle abitudini "americane" che il mio amico aveva contratto; prima era raro che arrivasse a qualche birra.
"Che facevi?", chiesi, indicando il computer portatile.
Federico lo raccolse, con gesti quasi amorevoli: non se ne separava praticamente mai, e la macchina era diventata, per lui, una specie di figlio elettronico.
"Lavoravo a una simulazione di astrofisica."
"Sei preoccupato, come i tuoi colleghi, di scoprire quale asteroide potrebbe caderci in testa?"
"La mia simulazione riguarda l'astrofisica, non la fantascienza. Sto cercando di capire quando potremo vedere un'altra supernova, e non hai idea di quante variabili entrino in gioco. Lo sai quando abbiamo visto l'ultima?"
Secoli prima: me lo aveva raccontato molte volte, e sapevo quanto fossero complicate le sue simulazioni, e quanto fosse difficile ricavarne dei risultati attendibili. Ma sapevo anche che la sua abilità combinata, di astrofisico e di programmatore, otteneva spesso quei risultati.
Gettai un'occhiata distratta alle finestre, i cui doppi vetri attutivano il frastuono di Corso Magenta, e buttai giù il Martini in un colpo solo.
"Come sta Helen?"
"Bene, grazie."
Helen lavorava nel suo consultorio fino al pomeriggio avanzato, a differenza di Federico che, come quasi tutti gli insegnanti, aveva molto più tempo libero, e spesso poteva permettersi di tornare a casa prima dell'ora di pranzo.
"Dai, Federico: dimmi che consiglio vuoi, e fammi vedere quello ... quello ..."
"Quello che ho da farti vedere."
"Appunto."
Con gesti lenti e studiati, Federico si sedette a sua volta sul divano di fronte al mio, tirò fuori una delle sue pipe da una piccola libreria al suo fianco, e la accese, nella calma più assoluta.
Io continuai a fissarlo, e mi domandai, come già altre volte, se non fosse più portato per fare l'attore piuttosto che lo scienziato.
In realtà era un genio in entrambe le attività.
Infine, quando la pipa cominciò ad emettere sbuffi di fumo con una certa regolarità, Federico si tolse un paio di occhiali scuri che aveva nel taschino della camicia, e me li porse.
Lo guardai con aria interrogativa; ma poi mi allungai verso di lui, e presi gli occhiali.
Erano dei comunissimi Rayban, forse un po' più pesanti del normale; li girai più volte tra le mani, senza notarvi nulla che mi facesse intuire quale fosse il consiglio che il mio amico desiderava tanto.
Federico sorrideva con aria sorniona, e continuava a tirare dalla pipa.
Io tornai a sedermi.
"Vediamo un po'. Dei Rayban. Ma forse non sono autentici. Forse sono un'imitazione. Ci sono! Hai abbandonato le scienze, e ti sei dato al design: hai ideato un modello che imita i Rayban, e vuoi lanciarlo sul mercato a un prezzo più basso dell'originale. Scommetto che ti servo per il marketing e per definire le strategie commerciali."
Guardai Federico di sfuggita.
"E' così? Quando si comincia?"
"Non è così. Sono dei Rayban autentici, quelli che hai in mano."
Punto e a capo. Scherzavo, naturalmente, ma cominciavo a sentirmi impaziente.
Girai di nuovo gli occhiali tra le mani, e li osservai da ogni lato. Infine li inforcai, e constatai come ogni oggetto diventava più scuro, esattamente come avrebbe dovuto essere.
"Federi..."
Rimasi senza parole. Federico sorrise apertamente, ma per il momento non disse nulla.
Tutto intorno al suo corpo era chiaramente visibile un alone giallastro, non molto intenso, ma reale senza possibilità di equivoco. Nulla di strano si vedeva intorno agli altri oggetti.
Mi tolsi gli occhiali; Federico ritornò normale. Nessun alone: e ci vedevo perfettamente.
Li rimisi. L'alone tornò visibile, dando al mio amico un aspetto vagamente spettrale.
"Che cosa ..."
"Perché non dai un'occhiata fuori della finestra?"
Mi alzai di scatto, sempre indossando gli occhiali. Arrivare alla finestra, aprirla e sporgermi per vedere meglio fu questione di un attimo.
Rimasi senza fiato. Tutte le persone, giù in strada, apparivano circondate da un alone simile a quello che avevo appena visto; alone non solo giallo come quello di Federico, ma anche verde o rossastro.
Mi sporsi ancora, spingendo lo sguardo fin dove mi era possibile, fino alla mia banca. Non c'era una persona senza questo incredibile alone. Tolsi gli occhiali, e tutto tornò normale. Li rimisi, e il mondo si ripopolò di spettri.
Spettri verdi, gialli e rossi, come i colori di un semaforo: i colori erano solo questi, e per quanto guardassi in giro non ne vidi altri.
Infine, sempre più sbalordito, mi tolsi lentamente gli occhiali, e restando in piedi vicino alla finestra mi girai verso Federico, che non si era mosso dal suo divano, né aveva smesso di fumare.
"Sorprendente, davvero."
Federico alzò lo sguardo e sorrise; ma rimase in silenzio.
"Allora, cos'è questo alone?"
"Spiegarlo non è così semplice; anche se, in un certo senso, il suo significato è banale."
Federico si divertiva spesso a confondere i suoi interlocutori con sottigliezze verbali; questo lo faceva apparire un po' scienziato e un po' stregone, e la cosa non gli dispiaceva.
Tornai a sedermi sul divano, deciso a non farmi distrarre dai suoi giochi di parole.
"Tu spiega."
Il mio amico si tolse, infine, la pipa di bocca, e mi fissò, lungamente.
"Vuoi un altro Martini?"
"Semmai dopo."
"Va bene. Hai sentito parlare dell'effetto Kirlian, o fotografia Kirlian?"
"Sì. Ma non interrogarmi, perché non riuscirei a ricordare nessun dettaglio."
"L'effetto Kirlian si ha quando poni qualcosa su di una lastra fotografica e vi fai passare un bel po' di corrente: sulla lastra si forma un alone luminoso che sembra circondare l'oggetto in questione. Tale alone è provocato da una ionizzazione dell'aria intorno all'oggetto, probabilmente perché la corrente provoca l'emissione di elettroni; e mi perdonino i miei colleghi scienziati se semplifico un po' la faccenda a tuo uso e consumo."
Federico mi guardò con aria interrogativa, aspettandosi chissà quali domande da parte mia.
"Tutto qua? E' questo l'alone che vedo con i tuoi occhiali?"
"No. Tu vedi una debole emissione di elettroni da parte degli esseri umani, e questa emissione è una sorta di 'residuo' di quella che causa l'effetto Kirlian; è molto più debole, ma è spontanea, a differenza della prima."
"Per me queste sono sottigliezze. Non capisco a cosa serva vedere o non vedere queste radiazioni."
Federico riprese la pipa, meditando. Evidentemente stava elaborando una spiegazione piuttosto complessa.
"Ricordi la mia consulenza negli Stati Uniti?"
"Certo che sì."
"Ricordi qual era l'oggetto della mia consulenza?"
"Lavoravi per l'FBI, su un progetto che aveva a che fare con la macchina della verità. E' stato allora che hai conosciuto Helen, giusto?"
"Giusto. Lei lavorava allo stesso progetto, studiando il problema dal punto di vista psicologico. E il problema era semplice, ma quasi insolubile: ancora non è chiaro se questa macchina funzioni, se funzioni sempre, se sia possibile ingannarla, se e quando convenga utilizzarla. Pensa che in certi stati la ammettono come prova, e in altri non vogliono neanche sentirne parlare."
Senza che lo avessi chiesto, Federico si interruppe per versarmi un altro Martini.
"La macchina misura certi parametri del corpo umano - hanno a che fare con la sua conducibilità elettrica -, o meglio le loro variazioni durante un interrogatorio; dall'analisi di queste variazioni si può capire se la persona interrogata dice la verità ... o se mente."
"Ma hai appena detto che questo non è affatto sicuro."
"Infatti. Il corpo umano è difficile da analizzare da un punto di vista strettamente fisico; anche per chi, come me, ci ha studiato sopra per anni ... comunque loro sapevano dei miei studi di biofisica, e mi hanno chiesto una mano per cercare di capirci qualcosa in più."
Mentre mandavo giù il Martini, stavolta più lentamente, Federico cominciò a divagare.
"Gli americani ... pieni di soldi, si credono i padroni del mondo. Ma se scavi un pochino, scopri che dietro tutto quel denaro c'è il vuoto assoluto: non un briciolo di cultura, che dico, neanche un po' di civiltà, non almeno come la concepiamo noi."
Lo sentii sospirare.
"Duemila anni fa gli antichi romani non sterminavano i popoli appena conquistati come hanno fatto loro con gli indiani. Ti sembrano una nazione civile? Se li metti di fronte ad un problema che non può essere risolto con i soldi o con la forza bruta, devono farsi aiutare da qualcun altro."
"Da un europeo come te, magari?"
"L'hai detto. Un europeo ci vuole, uno dotato di fantasia, uno che usi la testa invece che il portafoglio. Quasi tutti i più grandi scienziati degli ultimi due secoli erano europei. E non parliamo degli scrittori, o degli artisti!"
Federico si alzò, accalorato dalla sua filippica. Posò la pipa, e si diresse a sua volta alla finestra, la aprì, e respirò profondamente, per quanto l'inquinamento di Corso Magenta, esaltato dall'afa di quel fine Giugno, lo permettesse.
"Ma tu gli hai risolto questo problema con la macchina della verità?"
"In buona parte; e forse adesso nelle loro prigioni c'è qualche assassino in più e qualche innocente in meno. Ti ho parlato del loro infernale sistema giudiziario?"
"Sì che lo hai fatto. Ma dimmi dell'alone."
Federico tornò verso il divano, le mani in tasca.
"Ci arrivo. Mentre lavoravo alla macchina della verità, ho cominciato a chiedermi se non vi fosse qualche altro parametro, qualcosa di biofisico, che avesse le stesse potenzialità e potesse portare a risultati analoghi."
"L'effetto Kirlian?"
"Esatto. Pare che l'alone vari con l'umore del soggetto e col suo stato di salute; e forse anche a seconda di quello che sta pensando. Sai che alcuni medici tentano di servirsene per le diagnosi?"
"No, non lo sapevo."
La pipa ricomparve nelle mani del mio amico. Dopo una lunga pausa per riaccenderla, e un paio di tirate, si sedette nuovamente sul divano di fronte al mio, e riprese la sua spiegazione.
"Ebbene, mi convinsi che forse era possibile, dall'esame della misteriosa radiazione alla base dell'effetto Kirlian, capire qualcosa delle persone; non come la macchina della verità: qualcosa di più, e con maggiore certezza."
La mia curiosità aumentava; Federico stava salendo in cattedra.
"Riuscii a evidenziare la radiazione 'residua' ricorrendo a dei filtri ionizzanti - scusami se semplifico ancora -: gli stessi filtri che ho inserito in quel paio di occhiali, al posto delle lenti."
Istintivamente, osservai le lenti da vicino; ma in apparenza non avevano nulla di particolare.
"Pensa che ognuna di quelle che a te sembrano comuni lenti scure vale più di un milione."
Non potei trattenere un fischio.
"Insomma, ero riuscito a rendere visibile una radiazione intorno agli esseri viventi; ma collegare quanto vedevo con qualcosa che avesse a che fare con i loro pensieri fu molto, molto più difficile."
"Eppure c'eri riuscito con la macchina della verità."
"Quella era una cosa semplice, in confronto. Questo alone sembrava sfuggente, etereo; svaniva non appena eliminavo i filtri, e nello stesso tempo sembravano svanire le mie ipotesi. Il punto è che le sue variazioni erano troppo rapide per poterle ricondurre a un sentimento preciso: non avrei mai potuto utilizzarle per scoprire una bugia, per esempio."
"Sentimento? Avevi detto 'pensieri', un attimo fa."
"Capirai presto. Continuai le mie ricerche anche dopo essere tornato in Italia, senza confidarmi con nessuno, neanche con Helen: speravo di fare una scoperta importante, e la collaborazione non mi serviva, anzi, mi avrebbe distratto dal filo che andavo seguendo."
"Quale filo?"
"Io pensavo: se non c'è modo di evidenziare un pensiero effimero, come una bugia, forse si può riuscire con dei sentimenti duraturi ... come l'alone Kirlian può far capire che malattia ha una persona, così il mio poteva funzionare in modo analogo. O almeno questo era quello che speravo."
"E lo hai collegato alle malattie?"
"Era una possibilità; ma i sentimenti di una persona sono infiniti, e scandagliarli tutti, e poi confrontarli, e rapportarli con le variazioni di luminosità e di intensità dell'alone ... da impazzire, credimi."
Cominciavo a capire dove volesse arrivare.
"Le idee politiche!"
Federico sorrise.
"Ti pare facile. Non sai quanto ci ho lavorato, anzi, quanto ci ho penato."
Gli sbuffi della sua pipa si fecero più intensi.
"Mi dai un altro Martini, per favore?"
"Volentieri. Comunque, alla fine ci arrivai: un po' per caso, un po' per tenacia. Isolai una ... chiamiamola subfrequenza, o armonica, di questa radiazione; presentava pochi gradi di variabilità, ma tuttavia molto marcati; era un'armonica che sembrava stabile anche a distanza di tempo, e vi concentrai sopra tutti i miei sforzi."
Ormai pendevo letteralmente dalle sue labbra.
"Ci arrivai un anno fa; ma il campo di indagine era difficilissimo, e prima di essere assolutamente certo di quanto avevo scoperto dovetti lavorarci sopra ancora più di prima."
Avevo dimenticato il Martini, e persino i rumori che provenivano da Corso Magenta, attraverso la finestra lasciata aperta, parevano essersi attutiti.
"Due settimane fa, finalmente, terminai con pieno successo le mie ricerche: a dispetto delle enormi difficoltà che avevo incontrato nella verifica della mia ipotesi, non sussistevano più dubbi; per quanto sembrasse incredibile anche a me stesso, il mio lavoro si era concluso nel migliore dei modi. Così perfezionai i miei filtri, e feci in modo che la variazione che avevo isolato apparisse come una diversa colorazione dell'alone. Verde, o gialla. O rossa. In questo modo le applicazioni pratiche sarebbero state semplicissime da realizzare."
Federico fece una breve pausa; poi, con noncuranza, aggiunse:
"Senza quest'ultimo accorgimento, vedresti solo un po' di luce intorno alle persone, e solamente al buio. Nessun colore, e non ti accorgeresti mai di questa variazione."
Il suono assordante di un clacson, oltre la finestra, mi riscosse improvvisamente. Senza volerlo, affascinato dai discorsi del mio amico, ero entrato in uno stato simile alla trance.
"Ma ... ma è pazzesco."
"Hai capito tutto quello che ho detto?"
"Io ... credo di sì."
"E allora dimmi, in due parole, cosa vedi con questi occhiali."
"Io vedo qualcosa che pensa la gente ... no: vedo qualcosa che mi permette di capire come la pensa ... rosso se la pensa in un certo modo, altrimenti giallo o verde."
"Bravo. Vedi che era banale?"
Ci riflettei sopra. Mancava ancora la parte più importante.
"Come la pensa su che cosa?"
"Secondo te?"
Cercai ancora di riflettere. Idee politiche ... no, Federico stesso aveva scartato questa possibilità.
Tentai di cavarmela con una battuta.
"Voglia di lavorare?"
"Tu dici?"
"Perché no? Rosso vuol dire che non ne hanno voglia, verde che ne hanno, giallo ... giallo che accettano solo lavori poco faticosi."
Ridemmo, tutti e due.
"Prova ancora."
"Non so ... desiderio di avventura?"
"Qualcosa del genere."
Ma non mi veniva in mente nient'altro. Pare strano, ma isolare un sentimento preciso da quell'infinità a cui aveva accennato Federico non era affatto facile; un sentimento a tre livelli, oltretutto!
"Mi arrendo."
Allora, molto lentamente, Federico ripose la pipa, si versò un altro bicchiere di Martini, e infine, senza berlo, mi guardò dritto negli occhi, come ancora non aveva fatto da quando ero entrato in casa.
"Alone verde vuol dire che la persona desidera un rapporto sentimentale serio; giallo, che cerca solo brevi avventure; rosso, che sta bene così com'è."
Per un tempo che a me sembrò lunghissimo, quelle brevi parole rimbombarono nelle mie orecchie, infrangendosi sulla mia depressione come un mare in tempesta contro una barriera di scogli.
Senza poter fare nulla, sentii che qualcosa dentro di me cominciava a ribollire: ero incapace di accettare fino in fondo quello che avevo sentito, ma nello stesso tempo ero incapace di respingerlo.
Avvampai. Le mie difese cedettero di colpo, e mi precipitati alla finestra. Inforcai gli occhiali, e guardai fuori.
E avidamente, incapace di trattenermi, feci correre il mio sguardo su ogni donna che passava per Corso Magenta, scartando, spesso con un moto di delusione, quelle che apparivano circondate da un alone rosso, e concentrandomi invece su tutte le altre, soprattutto su quelle dotate di un alone verde.
Troppo vecchia. Troppo giovane. Questa non è il mio tipo. Questa biondina ... chissà. Questa ha già trovato compagnia, si direbbe. Brutta, non se ne parla neanche. Niente male, quest'altra ... però è gialla. Questa, questa non mi dispiace affatto: bruna, alta e slanciata. Questa è mozzafiato; anche troppo. Volgare, neanche a parlarne.
Sciatta. Quest'altra, però! Oh, un'altra brunetta; ma è gialla. Questa bionda invece ... no, gialla anche questa.
La voce di Federico cercò di riportarmi alla realtà.
"Ho fatto delle statistiche. Dovresti vedere un alone verde nel 25-30% dei casi, uno giallo nel 50% circa, e uno rosso nel restante 20-25%. Sono parametri molto generali, però. In certi ambienti l'alone verde prevale, in altri predomina il rosso; inoltre, le percentuali cambiano a seconda della stagione ..."
Ingrato, cercavo di scacciare quella voce, nel timore di perdermi anche una sola donna, fra quelle che passavano in strada; come se fossi stato capace di saltare giù e abbordare una sconosciuta solo perché la vedevo circondata da un alone verdino ...
"Ah, ti chiederai perché non vedi sfumature."
Non me lo chiedevo.
"Ho regolato i filtri per vedere solo tre colori; diversamente le mie verifiche sarebbero diventate quasi impossibili."
Alla fine fui strappato ai miei sogni; tornai a ragionare, e subito un altro pensiero mi colpì. Mi tolsi gli occhiali, rosso di vergogna, e mi girai verso Federico, sentendomi come un bambino sorpreso a rubare la marmellata.
"Federico! Dannazione ..."
"Dimmi."
"Un consiglio? Volevi un consiglio? Quando mai? Tu volevi che facessi da cavia: hai pensato "questo scemo ha avuto troppi insuccessi con le donne e si butterà a pesce sugli occhiali"; così io troverò la donna della mia vita, se il tuo alone funziona, e tu vincerai il premio Nobel!"
Federico rimase impassibile; si aspettava, evidentemente, la mia protesta.
"Ammetto che negli ultimi tempi ti ho pensato spesso; è vero, tu sei un soggetto ideale ed è anche per questo che ti ho raccontato tutta la storia. Non solo: puoi tenere gli occhiali, se vuoi; e se davvero ti serviranno a trovare la donna giusta, sarò il primo ad esserne felice, anche se non dovessi vincere il Nobel."
A questo punto Federico si tolse la pipa di bocca, e assunse un'espressione tremendamente seria.
"Ma quando ho detto che mi serviva un tuo consiglio, era vero; tu non hai ancora afferrato tutte le implicazioni della mia scoperta, ma io sì. E non riesco a prendere delle decisioni. Perché non torni a sederti? Vuoi un altro Martini?"
In silenzio obbedii, accettando l'ennesimo bicchiere.
"Intanto non voglio che sopravvaluti quello che puoi ottenere con questi occhiali. Ricorda, Maurizio, tu vedi qualcosa di oggettivo, e nulla più: se una donna ha un alone verde, questo significa che cerca una storia importante ... ma non è detto che sia tu l'uomo giusto. Non lasciarti trasportare!"
"L'avevo capito questo, Federico."
"Ne sei certo?"
"Sì; e non m'importa. Avrei comunque dei vantaggi, e so bene di cosa parlo. Sai anche a chi penso!"
"Alla mia collega? Luisa?"
"Luisa. Se avessi saputo che era fidanzata, non ci avrei provato."
"E hai ragione: lei probabilmente aveva un alone rosso, e se tu lo avessi visto ..."
"Mi sarei risparmiato un sacco di problemi."
Federico parve rassicurato; lo vidi versarsi a sua volta un altro Martini, e riprendere in mano la pipa.
"E anche quell'altra tua sciagurata impiegata ..."
"Non me la far ricordare."
"Quella sciagurata. Bigotta. Di certo anche lei avrà avuto un alone rosso. Al massimo giallo. Che avresti fatto se te ne fossi accorto?"
"L'avrei ignorata. Del resto non ne ero innamorato. Non ancora. Oh, accidenti!"
Mi alzai, furioso. Anche solo ricordare certi episodi mi dava fastidio.
"Lo vedi?"
"Vedo cosa?"
Chiusi la finestra, e tornai sul divano, rigirandomi nervosamente gli occhiali fra le mani.
"Non solo i problemi. Le sofferenze che ti saresti risparmiato."
Non avevo bisogno di sentirmelo dire.
"Pensa, Maurizio: ti rendi conto di cosa significherebbe sapere in anticipo se la persona che stai per corteggiare è disposta, non dico a cedere alle tue lusinghe, ma almeno a prenderti in considerazione? Quanti sforzi, quanto tempo risparmiato! Non sei l'unico, Maurizio: pensaci! Guardati intorno!"
Aveva bisogno di chiedermelo? Di convincermi? Inghiottii d'un fiato l'ultimo Martini.
"Ricordi quel nostro compagno di università? Antonio, quello che studiava matematica?"
Come scordarlo?
"Ha perso dieci anni dietro una che non si filava né lui, né nessun altro; una che al massimo andava in cerca di avventure, lo sapevamo tutti. Se avesse saputo, se avesse visto ... lei aveva di sicuro un alone giallo. E invece ha buttato dieci anni."
Federico si alzò all'improvviso, e prese uno dei giornali sparsi sul tappeto.
"Guarda qua! C'è di peggio, Maurizio!"
Mi sbatté sotto il naso una pagina di cronaca. Vi campeggiava la foto di una ragazza, sposata da pochi mesi, che era stata assassinata in casa sua da un corteggiatore respinto; uno che, secondo l'articolo, le andava dietro da anni senza successo.
"L'evidenza, Maurizio: l'evidenza! Lei amava qualcun altro: se lui avesse visto, se lui avesse saputo, forse a quest'ora lei sarebbe ancora viva."
Mi sentii turbato al punto di provare inconsciamente rimorso, solo per il fatto di avere in mano quegli occhiali.
"E quanti altri omicidi avvengono per cose come queste? Li leggi i giornali? Io non faccio altro, da quando ho capito cosa significa l'alone; e quasi ogni giorno vi trovo qualcosa che mi fa star male."
Trasalii, vedendolo gettar via la pipa.
"Pensa ai benefici che porterebbero questi occhiali! Quanto sarebbe più semplice la vita, solo per il fatto di poter trovare più facilmente l'anima gemella ... o anche soltanto una persona con cui divertirsi, sapendo in anticipo che non desidera nulla di più. Ci pensi, Maurizio? Ci pensi?"
Ero convintissimo. Mi sentii prendere dall'entusiasmo.
"Ci penso, sì! Cosa aspetti a render nota la tua scoperta? Mettiamo in vendita gli occhiali! Creiamo una società! Penserò io a tutti gli aspetti commerciali. E inoltre faremo soldi a palate, e per una volta nessuno avrà da ridire!"
Inforcai gli occhiali, guardandomi le mani. Circondate da un alone verde, ovviamente. Poi ripresi a parlare.
"Federico, noi dobbiamo ... dobbiamo ..."
Un sorriso amaro si formò sulle labbra del mio amico, non appena ebbe incrociato il mio sguardo stupito. Vidi svanire il suo entusiasmo, più rapidamente di quanto fosse apparso; lo vidi raccogliere la pipa e osservare tristemente la bottiglia di Martini ormai vuota.
"Federico ... ma il tuo alone è giallo."
"Non l'avevi notato, prima? Già; prima non sapevi cosa significasse."
"Ma Federico ... Helen ..."
"Helen è una donna fantastica ed io sono disposto a tradirla? E' questo che vuoi dire?"
"Ma perché ..."
"Perché? Lei è americana, ed io sono europeo, ricordi? Ci sono delle differenze, fra di noi, differenze che non si possono far finta di ignorare. Il modo di lavorare, il modo di gestire i soldi ... e altre che ... lasciamo stare. Un'altra volta. Ma che posso farci? Io l'amo, ma non posso far finta che non ci siano dei problemi. E non posso nascondere il mio alone."
Cominciai a rendermi vagamente conto del motivo per cui Federico mi aveva chiamato.
"Cosa pensi che succederebbe se lei vedesse il colore del mio alone?"
"Io ... non so. Un litigio?"
"Puoi ben dirlo. E temo molto di più."
Le idee mi si chiarirono all'improvviso: mi sembrò di precipitare in un pozzo senza fondo, dimentico dell'entusiasmo che mi aveva travolto fino a pochi istanti prima.
"Maledizione, Maurizio! Quanta gente è gelosa? Quanta ha motivo di esserlo? Quanta impazzirebbe di fronte alla scoperta di un alone giallo? O verde?"
Non avevo la forza di rispondere.
"Quanta ucciderebbe?"
"No!"
"Sì, invece: gli occhiali porterebbero benefici immensi a quella parte dell'umanità in cerca di qualcuno ... ma danni altrettanto immensi all'altra metà. Quella che ha trovato, o crede di aver trovato, qualcuno."
"Ed Helen? Che colore ha?"
Un sospiro.
"Non ho mai avuto il coraggio di guardare. Per lo stesso motivo. Anche se so che il mio alone è giallo, non riuscirei ad accettare che anche lei ... anche lei ... e se poi il suo alone fosse addirittura verde? Certe volte sono sul punto di cedere: vorrei guardare, ma mi trattengo, ma poi ci penso e ci ripenso ... è una tortura. E come me, quanti altri? Quanti non resisterebbero?"
"Perché non guardi e la fai finita? Magari ha un bell'alone rosso."
"E anche se fosse? Domani tornerei a tormentarmi; dovrei controllare sempre più spesso, nel timore che un giorno il colore possa cambiare. Diventerebbe come una droga, capisci? Se già non lo è."
Mi tolsi gli occhiali; la vista di quell'alone giallo mi angosciava.
"Vedi? Ho scoperto qualcosa che può rendere felici tante persone ... e distruggere la vita ad altrettante. Che devo fare, Maurizio? Che cosa?"
Strinsi gli occhiali, sforzandomi di calmarmi.
"Non so ... non c'è modo di alterare il proprio alone?"
"Scherzi? Neanche si vede a occhio nudo. E anche se fosse, allora gli occhiali non servirebbero più a nulla: né in un senso, né in un altro. Ci ho già pensato, e non c'è via di scampo. Ma devo prendere una decisione, o finirò per impazzire!"
Mi concentrai, disperatamente. Ma ero troppo agitato.
"Federico ... non sono in grado di darti nessun suggerimento. Io ... devo pensarci."
"Lo immaginavo. E poi temo di averti turbato più del necessario ... o no?"
"Sì che lo hai fatto. Prima il paradiso, poi l'inferno. Ora ripenso a Cristina e a quello che sarebbe successo se avessi saputo. Perché avrei saputo!"
Mi alzai, sopraffatto da pensieri contrastanti.
"Maurizio ... tranquillo. Prenditi del tempo. Non darmi risposte affrettate."
Ma io continuavo a pensare agli occhiali, a stringerli in mano.
"Tieni gli occhiali. Usali. Servitene. Troverai le risposte, ne sono sicuro; più risposte di quelle che troverei io, al tuo posto. Mi capisci? Io non sono in posizione di decidere, di fare esperimenti ... Io ..."
Federico si alzò. Avevo perso la percezione del tempo, ma fu lui, con un sorriso, a farmelo notare.
"Ho vinto la scommessa. Hai fatto tardi in banca!"
Guardai l'orologio. Era vero! Non mi ero reso conto né del tempo passato, né del pranzo che avevo saltato.
"Oggi è martedì. Giovedì sono a Venezia, a un congresso di astrofisica, e tornerò venerdì notte ... ci sentiamo, sabato? Mi dirai qualcosa? E poi, in fondo, sono curioso di sapere come te la caverai!"
Ritrovai un mezzo sorriso. Feci sparire gli occhiali all'interno della giacca, e mi avviai verso la porta.
"Ci sentiamo, sabato. E grazie. Grazie degli occhiali, di tutto!"
"Pensaci."
"Ci penserò. Più di quanto immagini!"
"Lo immagino."
Chissà perché, la sua pipa fu l'ultima cosa che vidi mentre la porta si chiudeva.

Milano tornò ad inghiottirmi. Ma io non ero più lo stesso.
E non lo sarei stato più.

3

Passai il resto del pomeriggio immerso in pensieri agitati. Uno dopo l'altro, i clienti si succedevano nel mio ufficio, e le loro richieste sembravano farsi ogni volta più assurde; anche se probabilmente i miei sensi sovreccitati avevano ridotto quasi a zero il mio livello di tolleranza.
Che dire, ad esempio, della signora di mezza età che non fidandosi delle affermazioni di uno dei miei consulenti finanziari, aveva insistito per discutere con me la differenza tra mutui fondiari e fondi d'investimento? Avevo ragione di mostrarmi intollerante con lei? O non avrei dovuto scordare che certi termini a me ovvi potevano non esserlo affatto per la gente che masticava poco di economia? Ma la mia mente non riusciva a distogliersi dagli occhiali, che ora facevano bella mostra di sé sulla mia scrivania, sopra la montagna di incartamenti che non mi decidevo ad esaminare, e gli affari della mia banca passavano pericolosamente in secondo piano.
Talvolta pensavo a Cristina. Pensavo a che alone le avrei visto intorno; a cosa sarebbe successo se avessi visto. Non pensavo affatto ad un mondo in cui tutti avessero quegli occhiali, e in cui certi segreti fossero stati banditi; mi vedevo invece così come ero in quel momento, unico possessore della verità: e immaginavo di scoprirla, e di adoperarmi per salvare il mio matrimonio e riconquistare l'amore della donna che amavo; oppure immaginavo vendette degne del Conte di Montecristo e trappole che avrebbero suscitato l'ammirazione di Ulisse; oppure, ancora, pensavo di perdonare tutti, e, dopo un commovente addio a Cristina, partire verso lidi lontani in cerca di una nuova vita.

Poco prima dell'ora di chiusura uno dei miei impiegati, uno dei più anziani, venne a chiedermi se mi sentivo bene: nonostante tutti loro fossero ormai abituati al mio cattivo umore, ai miei silenzi opprimenti, e talvolta persino ai miei sospiri, pure non mi avevano ancora visto trascurare apertamente il lavoro, e tanto meno mostrare insofferenza verso i clienti.
E pensare che gli occhiali di Federico avrebbero dovuto dare una svolta positiva alla mia vita!
"Mi sento benissimo. La ringrazio, ma può dormire tranquillo."
"Spero altrettanto di lei, signor direttore. E' banale, ma vedrà che la notte porta davvero consiglio."
Quell'impiegato, che sapeva quasi tutto delle mie disavventure, non mi aveva mai fatto mancare la sua solidarietà, e sempre con la massima discrezione. Credo che mi considerasse un po' come un fratello minore, e se veniva ad informarsi della mia salute non era mai per caso.
Le sue parole, come altre volte, ebbero su di me qualche effetto; il mio umore non migliorò, ma almeno riuscii a raccogliere i pensieri, e a ragionare un po' meglio sui problemi che mi ossessionavano. Accettai finalmente il fatto che avevo quegli occhiali solo da poche ore, che Cristina se n'era andata anni prima, e che le mie fantasie sarebbero rimaste tali.
Forse da allora in poi si sarebbero realizzate. Ma non prima.

Tornai a piedi a casa; abitavo non lontano dalla Fiera Campionaria, e lo facevo spesso quando ero di umore più tetro del solito: camminare senza fretta nei viali del centro, confuso tra la massa anonima di gente che tornava a casa dal lavoro, mi aiutava a rilassarmi, e a distendere i miei pensieri: forse la sensazione di trovarmi in mezzo a tante altre persone, così simili a me almeno in apparenza, mi faceva intuire quanto fossero numerosi e complicati i problemi altrui, e quanto fossero banali i miei; e per quanto io fossi restio ad accettare questa semplice verità, pure il mio punto di vista finiva per cambiare impercettibilmente, e si apriva qualche spiraglio nel mio eterno pessimismo.

Che dovevo fare con quegli occhiali? Temevo di inforcarli nuovamente, tanto profondamente ero stato colpito dalle osservazioni di Federico sulle possibili conseguenze negative; un mondo pieno di orrori mi si era dischiuso davanti, un mondo pieno di gente fatta a pezzi per gelosia, di gente la cui vita veniva improvvisamente distrutta così come lo era stata la mia. E mi sembrava che queste spaventose conseguenze superassero di gran lunga i benefici: del resto, come anche Federico mi aveva fatto notare, un alone verde non significava affatto aver trovato la donna della propria vita: significava solamente aver risparmiato un po' di strada.
Non vedevo vie d'uscita: ero quasi risoluto a lasciar perdere, a tornare da Federico su due piedi e dirgli di abbandonare le ricerche, dimenticare gli occhiali, e lasciare che il mondo si tenesse i suoi problemi.
Arrivato a casa, continuai a tormentarmi. Né libri, né dischi, né alcun altro dei miei soliti passatempi riuscì a spezzare il corso dei miei pensieri; saltai la cena, e mentre cercavo di vedere un telegiornale, sperando di ascoltarvi qualche notizia così sconvolgente da stornare la mia attenzione, fui ripreso da un pessimismo senza limiti; e tornai a rivedere Cristina, tornai a risentirla, e con lei Sergio che mi sogghignava ...

Andai a dormire, infine, prima del solito; ed erano ormai due ore o più che mi rigiravo, rotolandomi fra lenzuola e cuscini, quando, nel dormiveglia, mi tornò alla memoria l'immagine di una ragazza che avevo visto qualche mese prima in metropolitana: la ricordavo bellissima, con i capelli castani lunghi e degli occhi scuri ed espressivi come se ne vedono pochi; e piangeva, così in silenzio che nessuno se n'era accorto. Ma io sì; non avevo potuto fare a meno di notare l'infinita tristezza del suo sguardo, e c'era stato un momento in cui avrei voluto alzarmi e chiederle "perché piangi?", e un altro momento in cui mi era parso che le mie pene cedessero il passo di fronte al dolore sconosciuto che la animava, che fossero ben poca cosa di fronte ad un tormento così terribile nel suo silenzio.
Ma alla fine ero sceso dal treno, dopo averle lanciato un ultimo sguardo silenzioso; e prima di dimenticarla avevo fatto in tempo a sentire il rimpianto per qualcosa che avrei dovuto, e potuto fare. Qualcosa ormai sfuggita per sempre.
Quella notte la rividi, e mi sembrò, nelle mie fantasie, di vederla circondata da un alone verde; poi, a mano a mano che il sonno avanzava, vidi quell'alone diventare multicolore, assumendo ogni sfumatura non solo del giallo o del rosso, ma anche dell'azzurro, del violetto, del rosa, fino a trasformare la fanciulla piangente in una sorta di madonna sorridente: e nel mio sogno lei si allontanò, circondata da una luce sempre più intensa e sfolgorante, lontano da me, sempre più lontano, mentre io, incapace di muovermi, la guardavo svanire con una sensazione di malinconia struggente, ma nello stesso tempo dolcissima.

La mattina dopo mi svegliai frastornato; era come se fossi reduce da una sbornia. Ma, fosse stato il sogno, o, più banalmente, la notte che mi aveva portato veramente consiglio, sentivo finalmente un gran desiderio di provare gli occhiali e di abbandonarmi alle mie fantasticherie; avevo sempre ben presenti i termini del difficile problema che dovevo risolvere, ma evidentemente qualcosa era cambiato nel mio punto di vista, e non ero più l'individuo pessimista della sera prima.
Mentre facevo colazione, mi resi conto di essere diventato anche un po' più egoista: perché, diceva una voce dentro di me, non utilizzare gli occhiali, dimenticando i problemi altrui? In fondo ero l'unico al mondo ad averli, e il resto dell'umanità non correva nessun pericolo. Sì, dovevo prendere delle decisioni ... ma lo avrei fatto in seguito. Federico stesso me lo aveva detto; le risposte affrettate erano sempre un male, e prima di darne una bisognava che mi dessi da fare.

Finii di vestirmi e uscii, nel traffico caotico di quel mattino milanese. Inforcai gli occhiali, e smisi di essere uno dei tanti: divenni l'unico a sapere, l'unico in tutto il mondo a poter giudicare gli altri, a poter dire loro "tu sei fatto così, tu invece la pensi in questo modo." Vedermi circondato da spettri, avvolti in bizzarri aloni colorati, mi dava una sensazione di ebbrezza, una sensazione strana ed inspiegabile; ben presto, senza neanche più badare al colore delle donne che mi passavano accanto, cominciai ad assaporare, per la prima volta dopo tanti anni, un'insolita calma interiore; magari indotta artificialmente, magari destinata a sparire appena tolti gli occhiali, ma intanto concreta, reale: potevo quasi dire di sentirmi bene. Io sapevo! Sapevo, ed ero il solo.

In preda ad un'insolita euforia feci a piedi tutta la strada fino alla banca; mi sentivo ebbro di potere, e forse Federico non aveva tutti i torti a pensare che gli occhiali fossero una specie di droga; ma non me ne curavo più di tanto.
Salutai con grande cordialità i miei impiegati, e, senza togliermi gli occhiali, mi buttai nel lavoro con un entusiasmo che non mi capitava di avere da molto tempo.
Tra una pratica e l'altra lanciavo occhiate indagatrici alle donne che lavoravano nella mia filiale: erano cinque in tutto, e una sola aveva un alone verde; ma era una signora di mezz'età, già nonna, e non era assolutamente il mio tipo.
Che rimanesse pure alla sua contabilità!
Pure era verde. Troppa televisione? Troppi sceneggiati romantici? E magari un marito ormai imbolsito e pantofolaio? Mi dispiace per te, ma non credo che troverai facilmente un nuovo principe azzurro.
Le due impiegate che lavoravano al banco avevano entrambe un alone giallo; una di loro era abbastanza giovane e carina, e non era sposata. Però sei fidanzata, mia cara. Lo tradisci già, o vorresti solo farlo? Ti è passato davanti qualcuno dei nostri clienti ricchi e famosi, magari un attore o un calciatore, e ci hai fatto un pensierino?
E per quanto non fosse il mio tipo, scoprii che non mi sarebbe dispiaciuto approfondire la sua conoscenza, un giorno o l'altro.
La seconda impiegata, invece, aveva più o meno la mia età, e cominciava a sfiorire; sposata con due figli, era la più riservata delle mie dipendenti: eppure, dietro la sua espressione sempre assorta, qualcosa doveva nascondersi. Anche tu vorresti uscire dalla tua vita sempre uguale, di tanto in tanto? Ti capisco, ma se non diventi più spigliata, ragazza mia, finirai per sfiorire del tutto; e infine appassirai.
La nostra addetta alle pratiche con l'estero aveva un alone rosso; era di madre tedesca, e dietro un volto sempre impassibile e gelido non traspariva alcun sentimento. D'altronde, cara mia, sei rossa; e non casualmente. Spero solo che nessuno sia così folle da innamorarsi di te: sei abbastanza carina perché qualcuno lo faccia, e abbastanza spietata da lasciare che si uccida.
Stavo diventando cinico. Avrei ragionato allo stesso modo se l'alone non fosse stato rosso? Vedevo un alone identico circondare anche la consulente finanziaria, la nostra specialista dei titoli di stato. Sapeva tutto dei loro rendimenti, passati e presenti, ed era in grado di calcolarne a mente la rendita, per un qualsiasi numero di anni. Ma oltre al lavoro, le interessava qualcos'altro? Calcolatrice umana. Sei bella e attraente, e se fossi anche verde farei un pensierino su di te. Ma sei rossa, anche se spesso appari provocante. Vuoi forse attirare i clienti nella tua rete? Confonderli, oltre che con i numeri, anche con le tue curve? Perché tu sei fatta di numeri e quando sarai vecchia forse capirai di aver perso qualcosa, e il tuo alone diventerà verde. Invano.

Lo squillo del telefono interruppe il filo dei miei pensieri, proprio mentre stavo discutendo di mutui con un cliente importante.
"Maurizio carissimo! E' un po' che non ci sentiamo, o sbaglio?"
Il direttore generale; il mio cliente poteva aspettare.
"Buongiorno, capo! Le manco sempre, vero?"
Per me quell'uomo, che mi aveva sempre difeso nei momenti difficili, era come un secondo padre. Chiamarlo 'capo', soprattutto in pubblico, era il mio modo di manifestargli affetto.
"Mi mancano i tuoi affari, Maurizio, accidenti! Allora, le azioni?"
"Le azioni? Quali azioni? Ah, quelle azioni!"
"Non le hai ancora piazzate?!"
Ma io sapevo che se mi telefonava non era solo per sollecitarmi a concludere qualche affare.
"No, capo. Francamente non ho trovato nessuno così desideroso di rischiare. Sa, coi tempi che corrono ..."
"Maurizio! Una volta non avresti mai parlato dei tempi che corrono. Maurizio, uffa."
"Capo, sul serio, non scherzo. Quelle azioni sono davvero a rischio, e lei sa che non glielo dico da oggi."
"Sì, ma se non le piazziamo ..."
"Mi ascolti. Perché non ci vediamo e parliamo invece delle nostre sponsorizzazioni?"
Il mio cliente, circondato da un magnifico alone giallastro, sembrava una statua di cera. Sapevo che sperava di cogliere, nei miei discorsi, qualcosa che poi avrebbe cercato di far fruttare per conto suo.
E che ne avesse pure l'occasione: perché giudicare male un alone giallo?
"Ma le sponsorizzazioni sono solide, questo lo sai benissimo!"
"Capo! Perché non guardiamo al futuro? Basta con le squadre di calcio, con i campioni di tennis: lo sport è inflazionato, e domani non varrà più nulla."
"Ma tu scherzi, Maurizio!"
"Il futuro non è lo sport, è la scienza! Ma lei sa quante scoperte sono imminenti? C'è quella storia delle clonazioni, si parla di una cura per il cancro, tra poco l'uomo andrà su Marte. E sicuramente c'è dell'altro che bolle in pentola!"
Non che il direttore generale fosse uomo da convincersi con una frase o due; probabilmente non sarebbe bastato neanche un mese di discorsi, magari corredati da tabelle e grafici.
"Hai qualcosa in mente, Maurizio?"
"Lei pensi solo alle incredibili possibilità che ci darebbero le scoperte scientifiche! Altro che squadre di calcio!"
Lo lasciai fiatare, mentre con la mano libera facevo ampi gesti di intesa al mio cliente.
"Ti sento diverso dal solito, Maurizio. Ti sento meglio."
"Forse ha ragione, capo."
"E se ho ragione sono contento. Perché non ci vediamo, uno di questi giorni?"
"Quando vuole, capo."
"Potremmo andare a pranzo insieme. E approfondire questa storia delle sponsorizzazioni."
"Perché no? In fondo non abbiamo ancora rinnovato tutti i contratti, giusto?"
"Giusto. Ma dobbiamo parlarne. Ti va?"
"Sempre quando vuole, capo."
In fondo era un capitalista vecchio stampo; uno dei pochi banchieri a tenere ancora un occhio sui clienti, invece che sul proprio portafogli.
Il mio cliente annuì vigorosamente, e il suo alone parve sfolgorare in segno di approvazione.

Mi recai a pranzare da MacDonald, posto ideale per osservare e studiare le persone più varie e diverse. Forse ero in cerca di una nuova ragazza in lacrime; forse volevo solo mettermi su un piedistallo, e fare sfoggio del mio nuovo potere.
Né il fatto che nessuno potesse rendersi conto delle mie possibilità rendeva il mio sguardo meno attento, e neanche meno severo nel valutare e giudicare l'umanità che si aggirava intorno al mio tavolino.
Nessuno mi sfuggiva; uomini, donne, da soli o in coppia: nessuno mi rimaneva indifferente.
Come quella strana coppia di giovani, due tavolini più in là: alone rosso lei, verde lui. Lei felice, evidentemente, ma che dire del suo compagno? Un altro di quei rapporti a senso unico, evidentemente; forse lui la sopportava appena. Eppure mostri una faccia così felice. Stronzo! Lei non ti merita, è carina, è innamorata di te. E tu a chi pensi? Magari adesso la saluti, esci di qua, e vai a corteggiare un'altra.
In fondo al locale altri due giovani, entrambi avvolti da un alone giallo, attirarono la mia attenzione. Sposati, probabilmente, o almeno conviventi, a giudicare dalla confidenza senza passione che i loro gesti rivelavano. Se gli avessero aggiunto un bambino, sarebbero diventati la coppia più normale del mondo. E invece non lo siete: se non avete figli, siete ancora in tempo. Vorreste tradirvi a vicenda? E' questo il modo in cui risolverete i vostri problemi? Siete ancora in tempo!
Dietro di me una ragazza con un alone verde mangiava in silenzio. Bruna, con dei capelli lunghissimi, e con un mucchio di libri così simili a quelli che usavo io alla sua età, quando ero ancora uno studente giovane e spensierato. Potrei alzarmi e baciarti, ma io non sono più quello studente, e tu non sai nulla del tuo destino. Non sei tu quella che cerco, non oggi.
Mangiavo in silenzio, ipnotizzato da tutti quegli aloni, e dai loro colori; in certi momenti mi sembrava di avere mal di testa, ed ero costretto a chiudere gli occhi, ad isolarmi. Eppure non potevo fare a meno di soffermarmici, di avere un pensiero per tutti.
Mentre mi alzavo per tornare a malincuore in banca, vidi una coppia particolarmente strana: due giovani che passavano tutto il loro tempo a baciarsi, fra una patatina e l'altra, e che avevano entrambi un alone verde. Ma non ci eravamo comportati così anche noi, un tempo molto lontano? Cosa era rimasto dei nostri amori giovanili? Noi non potevamo saperlo, ma erano solo folate di vento prima dell'uragano. Divertitevi, ora che potete, e non smettete di cercare. Voi non lo sapete ancora, ma il vostro presente non è il vostro futuro.

Tornai verso la banca cercando di scacciare la malinconia che mi era venuta osservando tutte quelle coppie male assortite; tornai a pensare a Federico e alla risposta che dovevo dargli. Perché non provare gli occhiali su larga scala, dopotutto? Mi ero convinto che i danni non avrebbero superato i benefici: e comunque, quante volte in passato l'umanità aveva risolto alcuni dei suoi problemi per farne nascere di nuovi? Dopo un periodo iniziale di sbandamento, di caos anche, tutti si sarebbero adattati; le coppie in crisi sarebbero aumentate, probabilmente, e ci sarebbe stato più lavoro per gli avvocati. Ma nello stesso tempo sarebbero aumentate anche le coppie felici: il problema era solo nelle nostre teste, e dipendeva da noi gestire al meglio la situazione. In un certo senso sarebbe stato come acquistare un'automobile: tanti vantaggi, tante comodità, ma poi si scopre che il traffico mette i nervi a dura prova, che il motore inquina, che spesso si perde più tempo a parcheggiare di quello impiegato a spostarsi. Ma sta a noi decidere come e quando usare l'automobile: sta a noi sfruttarne i benefici, ed evitarne gli aspetti negativi.
Pensavo egoisticamente a Federico: lui sarebbe stato tra quelli che avrebbero avuto dei problemi, ma io no. E spettava a lui, non a me, risolverli. Suo era il matrimonio in difficoltà, e non era colpa mia né l'esistenza di queste difficoltà, né la sua scelta di non affrontarle.

Rientrai in banca quasi convinto, e forse avrei telefonato a Federico per fargli sapere che ero prossimo a una decisione; ma ben presto il lavoro si fece molto intenso, e il pensiero degli occhiali, nonostante continuassi a tenerli sul naso, si fece meno assillante.
Le telefonate inutili, soprattutto, interrompevano più di ogni altra cosa il filo dei miei pensieri: dapprima fui chiamato dalla ditta che aveva in programma di sostituirci le porte blindate con un modello nuovo e più resistente; che importava se quelle che avevamo al momento avevano sempre funzionato benissimo e la mia filiale non aveva mai subito una rapina? Cambiare le porte, i mobili, se non ristrutturare tutto l'ufficio, era una forma di investimento, anche se non di quelli che approvavo: ma qualcuno, nel consiglio di amministrazione, aveva deciso che ciclicamente bisognava spendere i soldi in questo modo. Intanto toccava a me discutere con le ditte interessate, e soprattutto convincerle a fare i lavori a cavallo di Ferragosto, unico periodo dell'anno in cui potevamo restare chiusi per qualche giornata; ed era più difficile convincerle di questo che non strappare qualche sconto.
Riattaccai esasperato, senza essere arrivato ad un accordo; un tipo dall'alone verde e dall'aria molto seccata si sedette davanti a me e cominciò a reclamare per tutta una serie di problemi con la sua carta di credito. Ma che facevano i miei impiegati? Questo era un problema di loro competenza, ed io non avevo tutto questo tempo da perdere.
Di nuovo il telefono. Stavolta era la software house che doveva installarci il nuovo programma di gestione dei conti correnti: velocissimo nei controlli, al riparo da ogni frode telematica, totalmente compatibile con quello attuale, e soprattutto, come insinuava maliziosamente Federico, pieno di suoni e di colori che avevano ipnotizzato i miei superiori e avrebbero fatto lo stesso con i miei impiegati. Altro modo di fare investimenti, dicevano; altro lavoro da farsi inevitabilmente a cavallo di Ferragosto; altre discussioni, di conseguenza, da parte mia. La software house, almeno, faceva meno obiezioni sulle date, purché la mia firma arrivasse entro pochi giorni: e nonostante fossimo d'accordo da tempo su questo particolare, telefonavano sempre più spesso nel timore che un mio ripensamento facesse slittare tutto al Ferragosto successivo.
Potevo perdere tempo in questo modo? E il mio cliente, sventolandomi la carta di credito sotto il naso, continuava a protestare, inconsapevole dei miei problemi; forse il destino dell'umanità era nelle mie mani, e passavo il mio tempo in banca, combattendo con gente sconosciuta di cui non m'importava nulla.

Ma cosa m'importava veramente? Quando infine trovai un momento per rilassarmi, poco prima dell'ora di chiusura, sentii fortissimo il desiderio di tornare ad immergermi in quel mondo popolato di spettri; e poi di contemplare la bellezza delle ragazze intorno a me, andare in cerca di gente qualsiasi, spiarne i sentimenti. Gli affari della banca mi sembravano solo un ostacolo da rimuovere al più presto.

Avevo staccato il telefono, dopo l'ennesima discussione, quando entrò una cliente, una che non avevo mai visto prima. Bellissima, con una cascata di capelli rossi da mozzare il fiato, e solo di pochi anni più giovane di me.
Ma il suo alone era rosso, e sembrava confondersi con i suoi capelli, accrescendone ulteriormente la bellezza.
La fissai malinconicamente, e la salutai senza alzarmi: cosa che avrei fatto, invece, se avesse avuto un alone verde.
"Qual è il suo problema, signora?"
Lei mi regalò un sorriso bellissimo, e si sedette a sua volta. Dovevo essere più gentile, nonostante tutto.
"Nessuno, signor direttore. Ma ci tenevo a dirle che ho aperto un conto nella sua banca su consiglio di un suo collega, e volevo fare la sua conoscenza."
Abbozzai un sorriso.
"Sento dal suo accento che lei non è di Milano."
"Sono nata a Prato, e abitavo a Firenze fino al mese scorso."
"E adesso vive a Milano?"
"Sì. Ho dovuto trasferirmi per motivi personali."
Brava. Segui tuo marito, il tuo fidanzato, il tuo amante. Lui magari ha un alone verde, come quel tipo da MacDonald, e di te non gliene importa nulla.
"E chi esattamente le ha consigliato questa filiale?"
"Il direttore della sede di via Cavour, a Firenze. Era quella la mia banca, fino al mese scorso."
In effetti lo conoscevo bene; e non potei fare a meno di ricordare che era stato uno dei due colleghi coinvolti con me nel famoso disguido di Lione, anni prima. Quello che mi aveva fatto tornare prima a casa. E quindi ...
"E quindi, signora ... signora ..."
"Mi chiami pure Miriam."
E mi sorrise nuovamente. Se solo avesse avuto un alone verde, le avrei risposto di chiamarmi Maurizio.
"E quindi, Miriam, perché il mio collega le ha consigliato proprio questa filiale?"
"Beh ... mi ha parlato bene di lei; anzi, mi ha detto ..."
Esitò.
"Che cosa le ha detto?"
"Che lei era la sola persona, a Milano, di cui avrei potuto fidarmi ciecamente."
Arrossì leggermente.
"La ringrazio di cuore. Anche se dovrei ringraziare di più il mio collega!"
E che altro ti ha detto? Che sono solo e bisognoso di compagnia? Certo, lui non poteva sapere del tuo alone, ma avrebbe fatto meglio a risparmiarsi la fatica.
"Io abito a Lambrate, e questa sede non è il massimo della comodità, per me; ma se davvero lei è quello che mi hanno descritto ..."
Arrossì di nuovo, per sciogliersi subito in un meraviglioso sorriso imbarazzato.
Appunto. Chissà che ti hanno detto di me. Forse "vai e sorridigli"? Forse pensano che io ti conceda un interesse astronomico, facendo andare in rovina la banca? Bel modo di liberarsi di me.
Sragionavo; la vista di quell'alone rosso mi irritava. Eppure, notai, non portava la fede; anzi, nessun tipo di anello, e parlando di sé aveva detto 'abito', al singolare.
"Se lei vuole, faccio trasferire il suo conto nella nostra filiale di Lambrate; l'avrà vista: è proprio dentro la stazione."
"Non crede sia meglio che rimanga qua?"
"Solo per il consiglio che le hanno dato?
"Il suo collega se ne avrebbe a male, non crede? Mi fido del suo consiglio, e poi posso sempre cambiare banca in ogni momento. Giusto?"
"Più che giusto."
Federico aveva scelto bene i colori. Quel rosso era proprio come quello di un semaforo: aveva un effetto bloccante su di me, al punto che dovevo sforzarmi di non essere scortese; al contrario, Miriam riusciva ad essere gentile senza mai diventare invadente.
"Direttore ..."
"Sì?"
"Lei porta sempre gli occhiali scuri in ufficio?"
Era la prima persona a farmelo notare; nessuno dei mei impiegati, o dei miei clienti, aveva detto nulla in proposito. Almeno fino a quel momento.
"Ho avuto un po' di congiuntivite, nei giorni scorsi, e soffro un po' la luce."
Tolsi gli occhiali. Miriam perse ogni alone, ed io sentii, improvvisamente, le mie difese allentarsi.
"Mi dispiace, davvero. Io la sto disturbando per nulla, e lei, magari, non vede l'ora di andarsene a casa."
"Lei non mi disturba affatto."
Ma si alzò, e mi porse la mano. Alzandomi anch'io, stavolta, gliela strinsi, cercando di metterci un po' di calore.
Ce lo mise lei. Poi si girò in fretta, e fece per uscire.
Sulla porta si voltò, e tornò indietro, esitando.
"Vuole il mio telefono, signor direttore?"
Arrossì visibilmente; volevo risponderle di no, ma non avevo più il suo alone rosso davanti agli occhi, e rimasi in silenzio, colto di sorpresa.
"Glielo lascio. Se ci fossero dei problemi col mio ... col mio conto, mi chiami pure."
Prese il mio blocco di appunti, e vi scrisse un numero.
"Allora arrivederci."
Guardai il numero di telefono, e ricordai, all'improvviso, che non aveva alcun bisogno di darmelo in quel modo: mi sarebbe bastato dare un'occhiata al suo contratto.
"Arrivederci, Miriam. Non mancherò di chiamarla."
Le sorrisi, finalmente; e la vidi uscire in tutta fretta, non prima di avermi rivolto un ultimo sguardo un po' imbarazzato.
Sei rossa. Rossa. E il mio collega ti ha istruito per filo e per segno, non è vero? Ti ha detto esattamente cosa dovevi fare per conquistarti i miei favori, e tu lo hai fatto.
Ma il mio collega non sapeva, e io tornai a meditare sulle possibilità degli occhiali. Quante altre Miriam si aggiravano per la città? Ero deluso, senza dubbio, ma in fondo gli occhiali mi avevano risparmiato una delusione ben maggiore. Avrei conosciuto altre clienti sorridenti! E verdi.

Avevo appena rimesso al suo posto la cornetta del telefono, e stavo per uscire, quando mi telefonò Federico; solo un saluto prima di partire per Venezia, almeno così diceva.
Ma capii subito che telefonava per sapere qualcosa; la curiosità era più forte della sua discrezione, più forte persino della voglia di avere da me quel famoso consiglio.
Federico non lo avrebbe mai ammesso, ma gli servivo davvero da cavia.
Gli raccontai di MacDonald, dei miei impiegati, delle mie considerazioni sulle coppie male assortite; rimasi sul generico, ed evitai di raccontargli di Miriam, e del mio disappunto.
Infine ci salutammo, sommergendoci di auguri reciproci: io per il suo congresso, e lui per le mie indagini 'sociologiche', come le chiamava scherzosamente.

L'ora di chiusura era passata da un pezzo quando lasciai la banca.

4

Il lavoro, il mattino dopo, mi impegnò duramente. Intanto ricevetti un'altra telefonata dal direttore generale, telefonata che mi fece quasi pentire di essermi mostrato troppo entusiasta, il giorno prima: quell'uomo, abituato alla mia eterna depressione, era rimasto stupefatto nel percepire in me un cambiamento improvviso la cui ragione gli era del tutto oscura: e tale sarebbe rimasta, almeno finché io non avessi parlato degli occhiali, cosa che non intendevo affatto fare. E non solo perché Federico era in attesa di una mia risposta; lo ammetto, mi stavo cullando nell'idea di essere l'unica persona al mondo in grado di leggere nei pensieri altrui, e non mi andava di condividere questo potere con qualcun altro. Quanto mi sembravano lontane ed irreali le preoccupazioni di due giorni prima! Lo stesso Federico mi sembrava distante, quasi estraneo, come se gli occhiali appartenessero a me, ed a me solo, e lui fosse stato soltanto un inviato del destino che, inspiegabilmente, aveva prescelto me.
Ma la maggior parte del mio tempo se ne andò nell'esame del conto di un cliente: un pezzo grosso che reclamava per un pasticcio - o presunto tale - che gli aveva fatto sparire nel nulla, almeno a suo dire, qualche decina di milioni; in realtà erano i suoi investimenti ad aver fruttato meno di quello che lui aveva capito, a suo tempo: ma la sua situazione contabile era assai complicata, e ricostruirla richiese tutta la mia concentrazione.
E così gli occhiali riposavano inutilizzati nel taschino della mia camicia, mentre io, imprecando silenziosamente contro l'ottusità del mio cliente, mi avvicinavo alla soluzione del suo problema: avrei voluto pensare a ben altro, magari a come darmi da fare per utilizzare seriamente a mio vantaggio quel potere che volevo conservare così gelosamente. Tra un calcolo e l'altro, a volte, accarezzavo addirittura l'idea di tenere una piccola festa a casa mia, uno dei giorni seguenti: una volta ero solito approfittare di ogni ricorrenza, ma ormai erano anni che avevo perso quell'abitudine.

Verso mezzogiorno qualcuno entrò nel mio ufficio, e si sedette in silenzio; senza alzare gli occhi dalle mie pratiche grugnii qualcosa e cercai mentalmente di tirare le somme del lavoro svolto fino a quel momento.
Infine, mi decisi ad alzare gli occhi, pronto alla solita discussione con l'ennesimo cliente.
Ma non era un cliente, e sfoggiava dei meravigliosi capelli biondi e un sorriso incantevole.
"Helen! Scusami tanto, ma questa roba mi sta facendo impazzire!"
Indicai, imbarazzato, la montagna di incartamenti che stavo esaminando.
"Maurizio. Scusami tu, ti prego. Ho scelto il momento sbagliato per venirti a trovare?"
Helen, nonostante parlasse perfettamente l'italiano - contrariamente alla grande maggioranza degli italo-americani-, conservava un leggerissimo accento straniero, il che le dava un sottile fascino esotico al quale non ero del tutto indifferente.
"Ma che dici? Sei una delle poche persone che può irrompere qui dentro in ogni momento del giorno, e ti scusi?"
La presenza di Helen mi rilassava sempre; il problema del mio cliente mi parve all'improvviso stupido ed insignificante.
"Come stai, Maurizio?"
"Sei sempre preoccupata per me. Ma non devi. Io ... penso di stare abbastanza bene, grazie."
"Davvero?"
"Davvero, Helen. Dico mai bugie?"
"Ma stai veramente bene? Sai che mi sento sempre un po' in colpa, Maurizio."
"Ancora per quella storia del tuo amico psicanalista?"
"Ho sbagliato persona: non dovevo mandarti da lui, lui ... non poteva capire certi problemi."
"Secondo me era bravo e competente. Sono io che sono un caso disperato."
Sorrisi. Ma Helen si protese in avanti, e mi strinse entrambe le mani con un'espressione seria.
"Ti prego, non dire così ... mi sembrava di aver capito che stavi meglio."
"Ma io sto bene. Te lo giuro! E non sento alcun bisogno di psicanalisti."
Helen parve rassicurarsi; mi lasciò le mani, e tornò a sedere composta.
"Se avessi potuto io stessa ..."
"Psicanalizzarmi? Me lo hai detto mille volte: con gli amici non si può fare."
"Però mi sento in colpa lo stesso."
"Non devi. O sarò io a sentirmi in colpa!"
Helen sospirò. Poi mi fissò, assumendo di nuovo un'espressione seria.
"Maurizio ... mi sembri un po' stanco."
"Te l'ho detto: è questa pratica infernale di cui mi sto occupando. Tu non sai quanta gente avrebbe bisogno delle tue cure, Helen!"
"Ma io non sono una psichiatra!"
Sorrideva di nuovo, adesso; con quei lunghissimi, splendidi capelli biondi sembrava una studentessa fresca di laurea, più che una stimata professionista.
"Ma sei sempre una strizzacervelli."
Mi diede un buffetto sulla guancia.
"Maurizio, davvero ... tu lavori troppo. Hai gli occhi arrossati!"
In effetti me li sentivo tali; il mio sguardo corse immediatamente agli occhiali.
"Ma no, Helen; ho avuto un po' di congiuntivite, nei giorni scorsi."
"E non hai fatto niente per fartela passare, vero?"
Ma il suo tono di rimprovero mi lasciò indifferente, mentre avvicinavo la mano al taschino della camicia.
"Hai ragione, Helen. Ma adesso mi è passata."
Afferrai gli occhiali. Io non ero Federico. Perché no? Perché non sapere, dopotutto?
"Però stai attento a queste cose, Maurizio. Una congiuntivite non è cosa banale come può sembrare."
La curiosità mi divorava. No, non ero Federico. Non m'importava niente di Federico.
"Un giorno mi spiegherai cosa ho rischiato."
Sorrisi, e inforcai gli occhiali.
L'alone di Helen era verde.
"Maurizio ... sono venuta per chiederti una cosa."
Non capii molto di quanto aveva detto.
"Come? Scusami, non ti seguivo."
"Devo chiederti una cosa, e non si tratta di un consiglio per pagare meno tasse."
Feci uno sforzo, e mi concentrai.
"E' qualcosa che riguarda il tuo lavoro? A proposito, come mai sei venuta a quest'ora?"
"Ho anticipato la pausa pranzo. Ho anche delle praticanti che lavorano con me, non sai?"
Sorrise ancora, ed io sentii dei brividi percorrermi la schiena.
Infine, si chinò verso di me con aria complice, e abbassò la voce.
"Maurizio, io ... ho una sorpresa. Scommetto che non ci crederai!"
Stavo sudando? Beh, era fine Giugno e faceva molto caldo, nonostante il cielo si stesse annuvolando.
"Maurizio ... pensa che ... come posso dirtelo?"
O forse c'era un guasto all'aria condizionata.
"Io ... ebbene ... questo mese ho frequentato un corso di cucina!"
Rimasi a bocca aperta.
"Me lo ha consigliato una mia paziente: è gratuito, e si tiene in un centro sociale vicino al mio consultorio. Voglio imparare a cucinare, Maurizio."
"Helen ... Helen, brava."
"Vorrei che tu venissi a cena da me, stasera. Maurizio, ti prego!"
"Federico ..."
"Federico avrà una sorpresa al suo ritorno. So preparare un sacco di ricette, vedrai!"
Effettivamente era una sorpresa. Helen che imparava a cucinare!
"Helen, ma tutto questo è meraviglioso!"
"Lo so. So quello che pensavi. Era una vergogna che io non sapessi cucinare, non è così?"
"Ma ti sbagli: io non ..."
"Non dire bugie! Tu lo pensavi. Ma adesso cambierà tutto!"
"Davvero, Helen, io ... beh, comunque ne sono felice!"
Non mentivo.
"Verrai, Maurizio? Ti prego!"
E si chinò nuovamente sulla mia scrivania, stringendomi le mani, con uno sguardo supplichevole al quale non avrei saputo dire di no neanche se quella sera il direttore generale mi avesse dato appuntamento per nominarmi suo successore.
"Certo che verrò."
Anche se mi stai facendo fare da cavia. Prima Federico, e adesso anche tu.
In quel momento Helen era così vicina che mi sembrava quasi di poter toccare il suo alone. Era una mia allucinazione, o lo vedevo splendere con maggiore intensità?
"Grazie, Maurizio. Temevo che rifiutassi!"
Mi baciò sulla guancia, con un trasporto insolito.
Potresti baciarmi sulle labbra.
"Sarà una gioia per me, Helen."
Misi a tacere bruscamente i miei pensieri, e mi tolsi gli occhiali.
Helen mi sorrideva, felice; e anche se non vedevo più il suo alone, continuavo ad avvertire delle sensazioni strane. Era come se qualcuno mi stesse pizzicando.
"A che ora devo venire?"
"Quando vuoi. Magari appena finisci di lavorare, ti va?"
Mi andava. Anche se sarebbe stato un bel po' prima dell'ora di cena.
"Maurizio, sei un tesoro. Ci tenevo così tanto."
Si alzò, abbagliandomi col suo sorriso, e mi salutò con un altro buffetto sulla guancia.
"Non farai tardi, vero?"
Non ci pensavo neanche. Lei infilò la porta, e io la salutai con un cenno della mano.
Ci volle un po' di tempo prima che tornassi ad occuparmi delle mie pratiche.

Non andai subito da Helen, una volta lasciata la banca; andai invece a casa mia, a indossare un abito elegante, e mi recai in un'enoteca a comprare un Pinot di marca; infine, lungo la strada, mi fermai a comprare anche un mazzo di rose.
Mentre le sceglievo una ad una, dal fioraio, mi resi conto che continuavo a pensare ad Helen, al suo alone verde; e che mi stavo preparando per la serata con una cura insolita. E questi pensieri mi turbavano.
Il suo alone era verde, d'accordo. E con questo? Helen era mia amica, punto. Sì, mi ero infilato in un abito elegante, cosa che non facevo quasi mai; le stavo portando del vino e dei fiori: ma facevo tutto questo per l'occasione davvero speciale, non per lei direttamente: Helen che imparava a cucinare! Non era forse un avvenimento memorabile?
Eppure, sentivo di non essere del tutto sincero con me stesso; era forse perché avrei voluto scegliere delle rose rosse al posto di quelle gialle che stavo comprando?
Ma indubbiamente, la cosa più inquietante era che continuavo a scacciare quei pensieri, evitando con cura di analizzarli a fondo, di capire che cosa volessi realmente; era come se avessi qualcosa che mi ronzasse in testa, e mi tappassi le orecchie non solo per non sentire il ronzio, ma anche per non conoscerne la causa.
Tornai a casa a prendere la macchina, e raggiunsi velocemente corso Magenta, ormai silenzioso dopo la chiusura degli uffici; mi sentivo sempre più nervoso, eppure stavo solamente andando a cena da una cara amica.
Bene. Se le cose stavano così, avrei cenato con lei, le avrei fatto i complimenti di rito, e sarei tornato a casa. Fine della serata. Non era ovvio? Ma allora, perché sentivo la necessità di ribadire di continuo i miei propositi? Dov'era il problema? Un alone verde? Qualcosa che neanche si vedeva ad occhio nudo? E che magari non significava nulla: in fondo anche i più grandi scienziati, qualche volta, si erano sbagliati.
No, non c'era nessun problema. Non ci doveva essere.
Parcheggiai, e uscii lentamente dalla macchina; un tuono lontano annunciò l'avvicinarsi di un temporale estivo.
Non ci feci caso.

Helen indossava una tuta, un paio di pantofole, e un grembiulone da cucina che le arrivava quasi ai piedi; io giacca e cravatta, entrambe firmate. Ma non appena ebbi visto in che condizioni era il buco che lei chiamava cucina, mi resi conto che ero io quello vestito nel modo sbagliato.
"Maurizio, perdonami ... sono orribile, lo so. Ma ho comprato questo grembiule solo nel pomeriggio e ..."
"Sei incantevole, Helen."
Lei arrossì visibilmente.
"Cercherò di ripulirmi, dopo. Ma metti via quei fiori, ti prego. Mi fanno sentire ancora più sciatta!"
"Helen!"
Tornai in soggiorno, e infilai le rose in un grande vaso da fiori che faceva bella mostra di sé in un angolo, sopra un tavolo da gioco.
Già, il soggiorno. Era stato rimesso in ordine, e non vedevo più un oggetto fuori posto: nulla sul tappeto, o sui divani; e niente cianfrusaglie accumulate negli angoli. Incredibile. E tutto questo per me?
Di nuovo quei pensieri, quel ronzio in testa. Senza volerlo, inforcai gli occhiali.
"Vuoi che ti dia una mano, Helen?"
"No, Maurizio. Me la cavo benissimo."
Non so perché, ma i rumori che provenivano dalla cucina sembravano far pensare il contrario. Buttai la giacca su un divano, e tornai da lei, da quel meraviglioso alone verde.
Helen stava cercando di infilare un piatto nel forno a microonde; ma il piatto era troppo grande, e lei era chiaramente in difficoltà. Alla fine, inclinandolo un po' di lato, riuscì a spingerlo dentro. Mi guardò, sorridendo trionfante, e richiuse il forno.
"E' che non ne ho uno più piccolo."
Era nuovamente una mia impressione o l'alone era diventato più luminoso? Federico aveva detto che un alone verde indicava solo il desiderio di avere una relazione, e non certo una preferenza specifica per la persona con la quale si era in compagnia; ma non poteva essere che in questo caso l'alone diventasse più intenso? Non mi sembrava affatto un'ipotesi irragionevole. Gliene dovevo parlare. E chissà, anche le sfumature di colore, se fossero state visibili, potevano fornire altre indicazioni utili. Sì, decisamente l'invenzione del mio amico poteva ancora essere migliorata. Ma se gliene dovevo parlare, perché cercavo invece di non pensare a lui?
Il tuo alone sembra davvero più intenso. E stai cucinando per me. E hai messo il soggiorno in ordine. Due cose che non ti ho mai visto fare, in tre anni che ci conosciamo.
"Helen, come mai parli perfettamente l'italiano? In genere gli italo-americani parlano solo inglese, purtroppo."
Senza smettere di mescolare qualcosa dentro una pentola, lei mi guardò per un attimo.
"Mia nonna era di buona famiglia ... emigrò in America negli anni '30, perché alcuni suoi cugini, che si erano trasferiti a Boston anni prima, le avevano trovato un posto da istitutrice, molto ben pagato. Era una persona di una certa cultura, e la lingua, per lei, era una cosa importante ... mi capisci?"
"E allora fece in modo che i suoi figli parlassero entrambe le lingue?"
"Sì, e la stessa cosa fece poi mia madre con me."
"Una tradizione di famiglia, insomma."
Chissà se tua nonna era splendida come te; se passava in cucina le sue serate con un grembiule addosso, senza per questo perdere il suo fascino.
Sentivo caldo. L'aria della cucina, indubbiamente. Improvvisamente mi tolsi gli occhiali, nella speranza che i miei pensieri sparissero insieme con l'alone verde.
Il tuono rimbombò di nuovo, più vicino.
"Maurizio! Speriamo che non vada via la luce!"
"Hai paura?"
"Un po'."
Riposi gli occhiali nel taschino della camicia.
I pensieri non se ne andavano.

Che cena! Apparecchiata sul tavolo da gioco, poiché Federico ed Helen non avevano un vero tavolo da pranzo in tutta la casa; a base di spaghetti alle vongole e di una spigola cotta insieme alle patate nel forno a microonde; io in giacca e cravatta ed Helen in tuta. E fuori pioveva, anzi, diluviava.
Sulle vongole, di provenienza quantomeno dubbia, meglio sorvolare. In quanto al pesce, era praticamente secco, mentre le patate erano rimaste crude. Conseguenza del piatto inclinato?
Ma io mandai giù tutto. La vista di Helen, che ad ogni boccone mi sorrideva compiaciuta, sperando di ricevere chissà quali complimenti, bastava e avanzava per farmi digerire la cena.
Il vino, per fortuna, non era affatto male; ma indubbiamente il mio compito era stato più facile. Povera Helen! Aveva ancora una lunga strada da percorrere: in cuor mio, speravo che non mi facesse domande sull'argomento. Avrei parlato volentieri di tutt'altro. Magari ascoltando musica, e con una luce soffusa. Perché no, in fondo? Ci sarebbe stato qualcosa di male?
Ma arrivati finalmente al caffè, peraltro appena passabile, lei mi chiese, un po' timidamente, cosa pensavo della cena.
"Ancora un po' di pratica e diventerai bravissima."
Un accenno di broncio comparve sul suo bellissimo viso.
"Allora non ti è piaciuta?"
Uffa. Non m'interessa come cucini.
"Non capisco cosa sia successo alle patate. Ma a parte questo dettaglio, ti sei davvero superata!"
"Davvero, Maurizio? Io ... io temevo tu fossi abituato troppo bene."
"Che intendi?"
"Cristina era brava, vero? Cristina ... io ... oh, scusami."
Mi afferrò una mano, e me la strinse fra le sue. La smorfia che avevo fatto sentendo quel nome si dileguò all'istante.
"Lascia stare. L'importante è che tu diventi brava. E poi ... e poi cucinavo sempre io!"
"Dovevi essere un marito meraviglioso, Maurizio."
Dillo ancora. Tienimi la mano.
Mi alzai di scatto, e andai a sedermi su un divano.
Helen mi seguì, premurosa.
"Ho detto qualcosa che non va?"
Fuori tuonava e diluviava; ma io sentivo caldo. Più di prima.
"No, Helen, solo ... solo che pensavo."
"A lei? Lei non ti merita: e tu la pensi ancora? Sono passati tanti anni!"
E tu mi meriteresti?
Ma che mi succedeva? Mi passai la mano nel colletto della camicia; sudavo.
"Certe cose non si dimenticano, neanche dopo secoli."
Sentii le mani di Helen slacciarmi delicatamente la cravatta, e poi aprirmi il primo bottone della camicia.
"Tanto non serve a niente pensarci, Maurizio. Ma io voglio che tu sia felice. Almeno stasera!"
"Helen, tu ... come va con Federico?"
Mi pentii subito di averle fatto quella domanda.
"Bene, perché?"
Era una mia impressione, o il suo tono di voce era diventato più freddo?
"Niente. E' solo che non lo sento da un po' di giorni."
Caldo. Sempre più intenso, sempre più diffuso.
"Federico sta benissimo."
"E tu?"
"Anch'io sto benissimo. Ma che hai, Maurizio?"
"Sarà l'odore del pesce."
E' un odore bellissimo: ce l'hai addosso, e ti dona lo stesso.
"Aspetta. Sparecchio, e mi faccio una doccia. Questione di un momento!"
"Ti aiuto!"
"No, per favore. Non muoverti dal divano. Sei mio ospite, e faccio tutto io!"
La guardai sparecchiare. Ci mise davvero un attimo, e il tavolo da gioco tornò nel suo angolo, con le mie rose a fare bella mostra di sé. Infine, con un ultimo, splendente sorriso, Helen scomparve in bagno.
Che mi stava succedendo? Che cosa stavo pensando? Mi alzai. Non riuscivo più a stare seduto; e lo sforzo di scacciare certi pensieri dalla mia testa cominciava a stancarmi.
Ma Helen si fece sentire.
"Arrivo subito. Non te ne andare, mi raccomando!"
La doccia. Stava facendo davvero la doccia. E aveva lasciato la porta socchiusa, notai.
Sempre più caldo. Fuori tuoni, e fulmini. Dovevano essere i fulmini a creare strani giochi di luce. Come l'alone verde che pareva avvolgere la porta del bagno. O era un'allucinazione?
"Ho quasi finito."
Continuavo a pensarla, a immaginarla nuda sotto la doccia. No, non dovevo. No!
E se me ne fossi andato? Ma il mio sguardo non voleva abbandonare la porta del bagno.
No, non me ne sarei andato. Semplicemente, non ne ero capace.
"Ho finito!"
Tornai a sedermi sul divano. Ma poi Helen uscì dal bagno, avvolta in un accappatoio, con i capelli che le ricadevano tutt'attorno, e io fui di nuovo in piedi.
"Devo essere orribile, Maurizio. Finirò per rovinarti la serata!"
"No, Helen, tu ... sei bellissima."
Sei bellissima.
Dovevo averlo detto in un tono particolare, perché smise di aggiustarsi i capelli, e mi guardò fissa. Poi sorrise.
"Ma dai."
"Lo giuro. Sei bellissima!"
All'improvviso lei alzò una mano a sfiorarmi una guancia. Per un attimo fu seria, poi sorrise di nuovo.
Mi prese per mano.
"Dai, Maurizio, aiutami! Cosa posso mettermi addosso?"
Mi portò in camera da letto, e si fermò di fronte all'armadio a muro.
"Che dici? Gonna o pantaloni?"
Il disordine del soggiorno si era spostato in quella camera. Il computer portatile, giornali, riviste, libri, vestiti di ogni tipo e per ogni stagione, addirittura piatti sporchi: tutto era ammucchiato qua e là, sulle sedie, sui comodini, e persino sul pavimento, in più strati.
Ecco come hai fatto a riordinare così bene il soggiorno. Ma l'hai fatto per me, in fondo.
Sempre tenendomi per mano, Helen aprì l'armadio a muro, e ne tirò fuori un abito estivo.
"E questo? Ti piace? L'ho comprato in saldo, l'anno scorso, e non l'ho mai indossato!"
Non mi piaceva molto; era rosa, con disegnate sopra delle enormi margherite.
"Ti starebbe benissimo, Helen."
"E quest'altro?"
Un abito lungo, autunnale. Grigio anche nel colore.
"Non importa tanto il vestito, quanto chi c'è dentro."
Forse in un altro momento avrei riso io stesso di quella frase fatta, subito dopo averla pronunciata; eppure mi era venuta fuori così spontanea che anche Helen ne fu colpita e, posando sul bordo del letto i due vestiti, vi si sedette e mi fissò, con lo sguardo serio, e gli occhi che sembravano implorarmi.
Non mi aveva ancora lasciato la mano.
"Non dire questo solo per farmi piacere, ti prego."
"Ma io lo penso davvero."
Non ti sto mentendo. Sei bellissima anche in accappatoio. O senza niente addosso.
Mi attirò accanto a sé, sul letto.
"E pensi davvero che io sia bellissima?"
"Sì."
"Ma io sto invecchiando, e fra vent'anni non lo penserai più."
"Lo penserò sempre."
Adesso sei bellissima. Non m'interessa come sarai in futuro.
La sua mano strinse di più la mia.
"Sai che nessuno mi ha mai parlato così?"
Cominciò ad accarezzarmi con l'altra mano.
"E' perché nessuno sa apprezzare veramente le cose belle."
"E tu sì?"
Vidi che il suo accappatoio si stava aprendo, e che lei non faceva nulla per richiuderlo.
"Helen ..."
"Sì?"
La accarezzai a mia volta, e per un lungo istante ci guardammo, senza più aprire bocca.
Infine, la sua mano smise di accarezzarmi, si portò lentamente dietro la mia nuca, e mi attirò inesorabilmente verso di lei.
Continuammo a guardarci fino all'ultimo, fino al momento in cui le nostre labbra si unirono, ed io precipitai in un mondo senza sogni, e senza desideri.
Quando riuscimmo a staccarci, il calore che mi tormentava si era tramutato in un succedersi di vampate: i miei sensi erano ormai ciechi, ma il mio corpo pulsava quasi dolorosamente, travolto da un desiderio inaspettato. Helen, Helen: desideravo solo lei, non vedevo altro che lei, i suoi capelli, le sue labbra, i suoi occhi, il suo corpo.
Ogni altro pensiero svanì, ed Helen prese il monopolio della mia anima.
Freneticamente, prima che uno di noi potesse riprendere fiato, le sue mani si infilarono sotto la mia camicia, facendone saltare i bottoni, strappandone quasi le maniche; mi ritrovai a torso nudo, stretto ad Helen in un abbraccio convulso, mentre lei riprendeva a baciarmi, sulle labbra, sul collo, sul petto, e nello stesso tempo mi stringeva a sé con una passione che sembrava non aver mai conosciuto.
Col corpo in fiamme, riuscii a sfilarmi le scarpe, mentre anche i pantaloni raggiungevano sul pavimento la mia camicia; poi la baciai a mia volta con un furore che pensavo di aver dimenticato, eccitato fino al dolore fisico, ebbro di piacere e di gioia selvaggia. Mi protesi su di lei, in tempo per sentirla sussurrare appena "spegni la luce".
La guardai, allora, in un attimo intensissimo nella sua brevità: completamente nuda, distesa sul letto, e avvolta dai lunghi capelli biondi; le braccia protese verso di me, nel più dolce degli inviti, le labbra frementi nella ricerca di un piacere che solo io potevo darle. Allungai un braccio fino all'interruttore, e poi fummo una cosa sola, finalmente, mentre la realtà circostante svaniva, e delle sensazioni che avevo seppellito da tempo rinascevano tumultuosamente.
Ero un torrente in piena, e gemetti di piacere quando lei si inarcò sotto di me, e sentii la sua mano sfilarmi le mutande, ultimo ostacolo che ancora ci separava dall'estasi finale.
Deliravo; mai avrei creduto di poter cedere in quel modo, di potermi abbandonare fino a quel punto; neanche i momenti più felici con Cristina avevano conosciuto tanta passione.
Poi la luce si riaccese, ed io balzai indietro, spaventato; l'estasi svanì insieme al buio, mentre il volto di Helen si stravolgeva in un'espressione di terrore.
Mi girai. Federico era in piedi accanto alla porta, una mano ancora sull'interruttore, e l'altra che si apriva lentamente, lasciando che una valigia scivolasse pian piano sul pavimento, accanto ai miei pantaloni.
Come dimenticare quella faccia? Dove fuggire da quell'espressione di stupore, anzi, di dolore che gli leggevo negli occhi? Il calore che aveva esaltato la mia passione si tramutò in gelo; il tempo parve fermarsi, e per alcuni secondi nessuno riuscì ad aprire bocca. D'altronde, cosa potevamo dire?
Perché sei tornato prima, perché?
Guardai Helen. Tremava convulsamente, e muoveva le labbra senza riuscire ad articolare una parola.
Tornai a girarmi verso Federico, che non si era ancora mosso, e, quasi imitando il gesto della moglie, cominciava a sua volta a muovere le labbra, in silenzio.
Ma poi parlò. Così piano che non lo avrei sentito se non fossi stato sovreccitato.
"Maurizio, tu ..."
La sua voce si spense. Ma tanto bastò a travolgermi, a riempirmi di orrore. Afferrai la camicia e i pantaloni, d'istinto, e fuggii; fuggii senza voltarmi indietro, alla vana ricerca di un posto dove quella voce non potesse trovarmi.

Mi ritrovai per strada, in un corso Magenta completamente deserto; aveva smesso di piovere, e la sagoma familiare della mia automobile mi restituì, per un attimo, un barlume di lucidità: mi resi conto di essere quasi completamente nudo, con in mano una camicia e un paio di pantaloni, e per di più in pieno centro. L'istinto, ancora una volta, mi aiutò a trovare in una tasca dei pantaloni le chiavi della macchina; aprii la portiera, e mi ci buttai dentro.
E allora mi presi la faccia tra le mani, e gridai. Gridai con tutto il fiato che avevo, straziato da un dolore che cominciava a dilaniarmi senza pietà. Era come se mi stessi risvegliando dopo un'anestesia troppo breve, col corpo in pezzi, e senza nessuno ad alleviare le mie sofferenze.
Gridai ancora. Sferrai un tremendo pugno contro il finestrino dell'auto, mandandolo in frantumi; le schegge mi ferirono alla mano e al volto. Ma il dolore fisico era nulla in confronto a quello che mi bruciava dentro; dovevo fuggire più lontano, fuggire in cerca di sollievo. All'improvviso accesi i fari e misi in moto.
Partii sgommando, il piede sull'acceleratore, l'aria umida di pioggia che irrompeva dal finestrino rotto. Corsi via come un pazzo, via da quella casa, via da corso Magenta, via non importa dove; ma per quanto veloce andassi, per quanto forte gridassi al mondo la mia sofferenza, gli incubi continuarono a seguirmi.

Guidavo senza curarmi di nulla e di nessuno; non vedevo né semafori, né pedoni, né ostacoli: pensavo solo a correre, a correre il più possibile, e buon per me che Milano, a quell'ora tarda, fosse quasi deserta, e che il temporale avesse tenuto lontani dalle strade i nottambuli; nessuno cercò di fermarmi, e ancora oggi mi chiedo cosa avrebbero pensato di un tipo seminudo e insanguinato che guidava un'auto a folle velocità in pieno centro urbano; e non un pazzo qualsiasi, ma uno stimato direttore di banca.
Ma la vita riserba delle sorprese! Quanto mi era successo con Sergio, anni prima, tornava a distruggere la mia vita, nonostante le parti si fossero invertite; ma sapevo che stavolta non ne sarei venuto fuori. Non potevo. Non solo avevo tradito un amico, e nel modo peggiore, approfittando di una sua assenza; non solo ero stato scoperto, cosa che sicuramente avrebbe distrutto la nostra amicizia e quasi certamente il suo matrimonio; non solo! Cominciavo a rendermi conto confusamente di una cosa ancora più orribile: io non ero innamorato di Helen, e a dispetto del suo fascino l'avevo sempre considerata un'amica, e nulla più; eppure, non appena l'avevo vista interessata, non appena avevo visto il suo alone verde, non avevo esitato a sedurla, a farmi sedurre. Perché lo avevo fatto, allora? Perché, non potevo negarlo, avevo sempre covato un desiderio nascosto di rivalsa, se non di vendetta, nei confronti di Sergio e Cristina, di Sergio soprattutto; volevo fare anch'io quello che lui aveva fatto a me, volevo portare via la donna ad un amico, e l'unico amico rimastomi era Federico, l'incolpevole Federico che mi aveva offerto questa possibilità sul classico piatto d'argento: prima con i suoi occhiali, e poi con la sua assenza nel momento più opportuno.
Mi ero vendicato di Sergio, finalmente.

Quanto tempo era passato? Avevo attraversato Milano, e ne stavo uscendo sulla statale di Rivolta, sempre guidando a folle velocità; cominciavo a sentire dei terribili dolori al petto, dolori che spesso salivano fino al collo, e poi alla nuca, con fitte lancinanti che sembravano volermi spaccare la testa. Non avevo pace; se pensavo a quanto era successo quella sera, la mia mente si rifiutava di proseguire, travolta dalla vergogna, dall'orrore del mio comportamento. Ma neanche riuscivo a non pensarci, e venivo sballottato da una sensazione dolorosa all'altra, senza alcuna via di scampo, schiacciato da un peso troppo grande per riuscire a risollevarmi.
Ero un mostro; avevo voluto dimenticarlo, e avevo fatto male. Ora ne avevo avuto la prova, e la prova peggiore, perché oltre a distruggere la mia vita avevo distrutto anche quella di due persone care: ma adesso, messo finalmente di fronte alla mia mostruosità, non avevo più via d'uscita; dovevo contemplarmi, e quello che vedevo era orribile.

La strada, sempre deserta, correva sotto le ruote della mia automobile; ma a mano a mano che la consapevolezza della mia mostruosità, ormai impossibile da nascondere, si accresceva sopraffacendo ogni altro pensiero, il mio tormento cresceva di pari passo; capii che nessun luogo avrebbe potuto darmi la pace che cercavo, che la mia fuga era disperata quanto inutile; sarei rimasto un mostro dovunque fossi andato, ovunque mi fossi nascosto. E questo pensiero era insopportabile, era più di quanto la mia mente sconvolta potesse reggere. Non avrei dunque ritrovato la pace, mai più? In nessun posto, mai, mai! Quanto potevo ancora resistere in quello stato? Dovevo trovare una soluzione, a ogni costo; ma sapevo che non l'avrei trovata, che per me non c'era salvezza.

E poi intravidi, alla luce dei fari, un cartello che segnalava l'avvicinarsi dell'Adda. Ancora dieci chilometri, non di più: a quella velocità, solo pochi minuti. L'Adda, e il grande ponte di Rivolta, così alto sul fiume. E mi vidi nell'atto di lanciarmi a folle velocità sul ponte, sbandare, sfondare il fragile parapetto e volare, volare fino a raggiungere nell'abbraccio del fiume quella pace che desideravo così tanto.
Ma certo: così avrei trovato la quiete, così le mie sofferenze se ne sarebbero andate; non più dolori, non più rimorsi, vergogna, orrore: non più mostri e incubi, non più le facce sconvolte di Helen e Federico che non mi lasciavano un solo istante.
Accelerai al massimo. L'automobile urlò a sua volta la propria sofferenza, e divorò i chilometri che mi separavano dal ponte. Ecco: ancora tre chilometri, ancora due. Sempre più veloce, incurante del buio, dell'asfalto ancora viscido di pioggia, col piede schiacciato sull'acceleratore ... sempre più vicino al ponte, all'acqua, al silenzio.
Un chilometro ancora, e poi la fine. Solo venti, trenta secondi di sofferenza. Avanti! L'argine ... ecco l'argine del fiume, alla luce dei fari. Quanti metri? Cinquecento, quattrocento?
All'improvviso qualcosa mi attraversò la strada. Un cane, o forse una volpe. Istintivamente frenai, e mi buttai sulla destra: un attimo dopo ero in testa-coda sull'asfalto ancora viscido, e giravo come una trottola; una volta, due, tre. Poi un urto violentissimo arrestò la macchina, e mi ritrovai a guardare il cielo ormai stellato attraverso il parabrezza.
Ero finito, con la parte posteriore dell'automobile, in un fosso a lato della strada, e ne sporgevo col cofano: il sedile aveva attutito l'urto, ed io ero praticamente illeso; perfino la macchina non aveva riportato grandi danni. E pensare che se mi fossi infilato di fronte, in quel fosso, avrei anticipato di pochi attimi quello che stavo per fare, dal momento che non avevo certo pensato a infilare la cintura di sicurezza.
Ero illeso, in effetti, ma sotto shock, e la mia mente andava per conto suo, senza alcun controllo: e rividi in pochi istanti tutta la serata, come in un film che venisse proiettato direttamente nel mio cervello.
E così rivissi finalmente l'orrore di quanto avevo fatto; e risentii la voce di Helen, e la rividi uscire dal bagno, e trascinarmi, quasi, in camera da letto. Ero impotente di fronte a quelle immagini: avevo perso, almeno per il momento, la possibilità di sfuggire al mio incubo.
Ma ad un tratto ebbi l'impressione che il film si fosse inceppato, o che qualcosa lo avesse mandato fuori fuoco. E nella mia mente cominciò a riavvolgersi, e poi a svolgersi di nuovo, nel tentativo di superare l'ostacolo: e a mano a mano che uscivo dallo shock, le immagini si facevano sempre più chiare, sempre più nitide, sempre più vicine al punto in cui c'era qualcosa che non andava ... qualcosa che aveva a che fare con la camera da letto.

Finché l'immagine si arrestò del tutto, e io vidi cosa non andava.
E allora gridai di nuovo. Ma non di dolore. Di rabbia.

5

Corso Magenta aveva ripreso il suo solito aspetto: un fiume di pedoni e di automobili che si recavano al lavoro, come sempre, e nessuno avrebbe notato che tre persone, quella mattina, mancavano all'appello.
Federico ed Helen erano sul divano, ad ascoltare la radio; almeno io li immaginavo così.
Il primo calcio fece tremare la porta, senza riuscire a sfondarla, ed entrambi saltarono in piedi, con un'espressione spaventata sul volto: l'imprevisto era, in effetti, qualcosa di cui avevano paura, soprattutto in quel momento.
Ma quando il secondo calcio riuscì finalmente a spalancare i battenti della porta, ed io, scuro in volto, entrai in casa loro come una furia, lo stupore, anzi, lo sbalordimento che lessi loro negli occhi mi confermò quanto già sapevo.
Helen, gridando, si ritirò in un angolo, spaventata; Federico rimase in piedi, ed io andai dritto verso di lui, mentre delle parole mai dimenticate mi tornavano alle labbra.
"Bastardo figlio di puttana! La prossima volta che fai finta di andare ad un congresso, non dimenticare il portatile in camera da letto!"
Federico, cercando invano di dissimulare un sussulto rivelatore, abbozzò una reazione.
"Come ti permetti? Dopo quello che ..."
Non lo lasciai finire. Lo spintonai con forza facendolo ricadere sul divano, mentre Helen, a sua volta, balbettava qualcosa.
"Maurizio, ti prego! Sei sconvolto, vado a prenderti un calmante!"
Non le badai. Continuavo a fissare Federico, con odio.
"Dov'eri nascosto? Aspettavi che Helen spegnesse la luce per rientrare in casa? Quanto ti ho fatto aspettare, bastardo!"
"Maurizio ..."
"Tu hai sempre pensato che io fossi un imbecille, fin dai tempi dell'università; tu invece eri il genio della compagnia, stronzo! Ma so fare anch'io i miei calcoli: o credi che sia venuto qui solo per una tua dimenticanza? Stanotte, quando ho capito, ho pensato a lungo a te, e ho visto tante cose che prima, nella mia stupidità, non vedevo. Come il tuo lavoro al planetario: poca cosa per un genio in procinto di vincere il premio Nobel, non trovi? O come i tuoi investimenti sempre produttivi, nonostante tu non volessi mai un consiglio, tu che non capivi nulla di economia!"
Vidi, con la coda dell'occhio, Helen sparire verso la camera da letto. Di nuovo, non le badai.
"Ho passato la notte in banca, a fare quello che avrei dovuto fare da tempo: ho controllato il tuo conto corrente da cima a fondo, e indovina un po' cosa ho scoperto? Ma tu non hai bisogno di indovinare, scommetto!"
Federico rimaneva in silenzio, fissando un angolo del pavimento.
"Eri bravo, indubbiamente. Prima facevi entrare una decina di milioni, tramite un bonifico, poi facevi uscire gli stessi soldi in direzione di qualcuno dei tuoi investimenti; e dopo un po' i soldi rientravano in banca. Anzi, ne rientravano di più, visto che i tuoi investimenti erano sempre molto redditizi. E poi di nuovo fuori, e poi di nuovo dentro, e avanti, e indietro. Peccato che i soldi in entrata fossero soldi virtuali, frutto della tua abilità telematica, mentre quelli in uscita fossero autentici. E sai a quanto ammonta il totale delle uscite? Certo che lo sai. Scommetto anche che hai una contabilità molto più esatta della mia. Hai rubato due miliardi, in tre anni. E' poco, dici? Poco per un genio come te? Comunque il nuovo programma ti avrebbe creato troppi problemi, e forse mi avrebbe anche permesso di scoprire qualcosa dei tuoi imbrogli passati. E come salvare capra e cavoli, allora? Te lo dico io: facciamo suicidare questo imbecille prima che firmi per fare installare il maledetto programma: quando il nuovo direttore avrà ripreso in mano la situazione, tutto sarà stato rinviato di un anno, e tu avrai preso le tue contromisure. Giusto, stronzo? E poi, con una moglie psicologa, che sa tutto dei problemi dell'imbecille, il piano funzionerà a colpo sicuro! Esci dal bagno seminuda, fai gli occhi dolci, sorridi alle battute sceme, e soprattutto fa' in modo che venga sorpreso sul più bello: e non ci penserà due volte a buttarsi giù da un ponte! Chissà quanto tempo per mettere a punto i dettagli, povera piccola Helen!"
"Meno di quanto credi, Maurizio."
Mi girai. Helen, dopo aver richiuso la porta di casa, era tornata nel soggiorno, e mi puntava contro una pistola. Non sorrideva più, e nella sua voce non c'era più traccia del tono seducente della sera prima.
"In fondo sei così prevedibile. Lo sei sempre stato."
Era gelida, e stentavo a riconoscere, in quegli occhi carichi di minaccia, lo sguardo che solo poche ore prima, in quella stessa stanza, mi aveva fatto impazzire.
Federico, improvvisamente, cominciò a parlare.
"Su una cosa ti sbagli, Maurizio."
Mi girai. E la scena di alcuni giorni prima parve ripetersi; lo vidi raccogliere, con la massima naturalezza, la pipa che aveva lasciato cadere sul tappeto quando ero entrato in casa, e poi riaccenderla. Ora che la situazione sembrava di nuovo sotto controllo, lo scienziato tornava in cattedra.
"Non è vero che all'università ti consideravo un imbecille. Anzi, avevo molta stima di te, visto che la tua materia, l'economia, era una delle poche di cui io non capivo nulla. Invece, quelle che studiavano gli altri, come la letteratura, o l'architettura, non mi interessavano più di tanto, ma le capivo benissimo. Ma tu sembravi avere qualcosa in più ... lo ammetto, ero un po' invidioso, e hai dimostrato di essere davvero in gamba facendo carriera, dopo. Sì, tu eri quello che aveva sempre l'intuizione giusta, quello a cui nulla sfuggiva, quello che, se voleva, capiva al volo ogni persona, ogni circostanza."
Dimentico di Helen e della pistola, fissavo Federico; dove sarebbe arrivato, stavolta?
"Ma poi sei diventato veramente un imbecille; e un imbecille patetico, per giunta. L'incontro con Cristina ha fatto piazza pulita delle tue capacità, a quanto pare: e alla lunga sei diventato perfino ridicolo, nelle tue fantasie. Sappiamo tutti quello che pensavi di te stesso: "sono un mostro, un maniaco da rinchiudere"; e invece, tutto preso a commiserarti, a trovare un muro su cui sbattere la testa, o uno specchio nel quale rimirare la tua bruttezza interiore, non capivi più nulla di quello che ti succedeva intorno."
"Spiegamelo tu, genio. Spiegami quello che non capivo!"
"Non saprei neanche da dove cominciare."
Mi guardò con un sogghigno. Ma a lui piacevano le spiegazioni.
"Beh, partiamo da Cristina: cos'è che pensavi di lei? Che fosse un tipo romantico, disinteressato? Peccato ti avesse sposato nella speranza che tu diventassi un ricco e potente finanziere, magari presidente del Credito Lombardo, o perfino ministro del Tesoro o direttore della banca d'Italia. Eh sì: peccato che delle tue molte qualità a lei interessasse solo questa. E peccato che, quando ha capito che tu l'amavi troppo, che per starle vicino stavi ormai trascurando il lavoro, e che per questo non avresti più fatto carriera, abbia deciso di puntare su qualcun altro. Tu dirai: "ma allora Sergio non era uno scrittore così famoso, e non lo è neanche adesso". E questo è vero; però Sergio ha sempre ottenuto quello che voleva, e Cristina lo aveva capito meglio di tutti noi: altrimenti, sta' tranquillo, avrebbe trovato qualcuno con migliori prospettive. Nel dubbio, tuttavia, lei preferiva conservarsi entrambe le possibilità: il direttore di banca e lo scrittore di successo. Per questo ti insultò in quel modo quando tu, scoprendola, la costringesti a fare una scelta."
Incrociai le braccia.
"E poi?"
"Poi ... poi ... Sergio, appunto. Beh, che non fosse quel grande amico che credevi, penso tu lo abbia capito. Ma non sai che Ruggero, quando mi telefonò dalla barca, non mi disse affatto che voleva tornare prima possibile per venire a consolarti. Povero Maurizio!"
"E cosa voleva?"
"Voleva tornare, sì; ma per congratularsi con Sergio, perché finalmente ti aveva messo nel sacco. O forse credi che quei due, quando ti accusavano di studiare economia solo per avidità, scherzassero? Erano seri, invece; e quando videro che stavi facendo carriera, lo pensarono ancora di più. Credi che fossero immuni dall'invidia?"
"Pare di no."
"Ti ho mai detto che la rivista di Ruggero non stava andando affatto a gonfie vele come lui voleva farci credere?"
"No."
"Avrebbe chiuso i battenti comunque, anche se lui non fosse morto; e comunque la sua morte mi tolse dall'imbarazzo di doverti rivelare una verità spiacevole. Rigirai la frittata, semplicemente."
La calma di Federico era invidiabile; io, viceversa, non sapevo se saltargli addosso e strangolarlo, o starlo a sentire fino in fondo.
"Che altro c'era? Ah, la tua impiegata, quella che amava mandare raccomandate ai tuoi superiori. Una copia malriuscita di Cristina, indubbiamente. Pensava tu fossi uno dei tanti: uno di quelli che si portano a letto le impiegate e poi trovano il modo di farle promuovere. Ci ha messo un po' a capire che stava perdendo il suo tempo, che tu non eri il tipo che lei sperava, e quando lo ha capito ha trovato un altro sistema per ottenere quello che voleva: sai come va il mondo, no? L'importante è attirare su di sé l'attenzione di qualcuno molto in alto, e se poi si ha l'aria di una povera vittima ... sbaglio, o poco dopo ha fatto carriera?"
Non si sbagliava.
"Ah, quasi dimenticavo la mia collega, Luisa. Com'era la faccenda? "Villano e mentecatto", ora ricordo. Terribile, vero? Però non hai pensato che erano frasi che io ti avevo riferito: non sapevi che già allora mi servivi depresso piuttosto che felice, altrimenti ti poteva sempre venire in mente di controllare meglio i miei conti ... insomma, sai come sono le donne? No, forse non lo sai. Beh, Luisa, dopo che te n'eri andato, aveva capito subito di averti ferito, e di brutto; venne da me, disperata perché non sapeva come fare per scusarsi, e voleva che l'aiutassi. Pensa che, nonostante fosse davvero innamorata del fidanzato, aveva addirittura pensato di rinviare il matrimonio; e faticai non poco per convincerla che la cosa migliore da fare era non vederti più, non cercarti neanche."
Forse avrei fatto meglio a strangolarlo.
"Ma cosa vuoi che siano alcune frasi inventate sul momento? Gli occhiali, quegli occhiali che, a quanto vedo, tieni ancora gelosamente nel taschino della camicia, sono stati il mio capolavoro!"
Afferrai gli occhiali, convulsamente, mentre Federico mi fissava con uno sguardo ironico.
"Peccato che si sappia da tempo che il corpo umano emette deboli radiazioni, e peccato che già si sappia come fotografarle; se proprio devo attribuirmi qualche merito, è stato quello di aver trovato un sistema semplice per vederle; anzi, per farle vedere a te. In quanto al loro significato, se proprio ti interessa, non ne ho la minima idea."
Non riuscì a trattenere una risata. Strinsi con rabbia gli occhiali, e infine li scaraventai contro la finestra; la stessa da cui avevo visto, per la prima volta, i misteriosi aloni.
Le lenti andarono in pezzi, ma né Federico, né Helen si mossero.
"L'unica cosa importante era che tu vedessi solo tre colori, senza sfumature che avrebbero finito per complicarti la vita; e che il tuo alone, e così pure quello di Helen, fosse verde, mentre il mio doveva essere giallo. Un lavoro di poche ore con i filtri, e ho trovato la giusta combinazione."
"Perché giallo?"
Faticavo a parlare.
"Se fosse stato verde, avresti avuto meno scrupoli; rosso, ne avresti avuti troppi."
Helen rise.
"E comunque, Federico, il nostro Maurizio ha una moralità a prova di bomba: senza il pizzico di cocaina che gli ho messo nel pesce non avrebbe allungato un dito su di me!"
Mi girai verso di lei, furibondo.
"La tua cena avrebbe fatto schifo comunque, Helen."
"Oh, ma tanto non avevo mica seguito per davvero un corso di cucina, io!"
E rise di nuovo.
Tornai a voltarmi verso Federico, avvicinandomi minacciosamente al suo divano.
"Tu ... bastardo. Tu devi aver combinato qualcosa quando stavi a New York, ne sono sicuro!"
Federico alzò le sopracciglia.
"Che ne dici, Helen? Il nostro Maurizio è davvero tornato quello di un tempo? Acuto e lungimirante?"
"Avrà trovato uno psicanalista in gamba."
"Non è che ora che non è più un imbecille ti innamori veramente di lui?"
Scoppiarono a ridere, tutti e due.
Io alzai i pugni verso Federico.
"Stronzo ..."
"E bastardo, sì, certo. Ma vedi, ci sono altre cose su cui ti ho mentito."
"Quali cose?"
"Il mio lavoro ... ricordi l'istituto di ricerca, tanti anni fa? Quelli che volevano trovare una cura alternativa per il cancro? Beh, i giornali avevano ragione. Vendevano fumo, ed io con loro."
"E New York?"
"New York, la macchina della verità: magari fossi riuscito a capirne qualcosa. Non se ne sapeva molto prima, e non se ne sa molto ora. E gli americani avranno anche bisogno dell'aiuto di noi europei, ma quando l'aiuto si rivela un buco nell'acqua ... insomma, tu diventi lo scemo del villaggio, e la tua consulenza sparisce da un giorno all'altro."
"E allora?"
"Allora, sai come vanno queste cose ... fallisci un giorno, fallisci un altro, e cominci a capire che forse non vincerai mai il premio Nobel; anzi, capisci che probabilmente non riuscirai mai a diventare qualcosa di meglio di un semplice insegnante di fisica. E allora cominci a pensare se non sia il caso di trovare altre strade, se non per diventare famoso, almeno per arricchirti: e quando per anni hai lavorato all'FBI, e ti sei visto passare sotto il naso droga, gioielli, quadri rubati, e mucchi di soldi magari destinati al macero, allora ti vengono certe idee."
Ma io non riuscivo a compatirlo.
"E allora immagina di venire a sapere, gli ultimi giorni della tua consulenza, di una grossa partita di droga lasciata dalla mafia in un deposito bagagli di una stazione ferroviaria; droga per milioni di dollari! E pensa di riuscire a impadronirtene prima di quelli che dovrebbero ritirarla, e prima anche dell'FBI che dovrebbe tender loro una trappola. Ci pensi?"
"Sì."
"Però tu non sei un criminale di professione, e ti scoprono subito, sia la mafia che l'FBI: e fai appena in tempo a distruggere la droga, in modo da non farti prendere con le mani nel sacco. Però sanno che sei stato tu, e l'FBI ti rimanda a casa a calci, e col divieto di tornare negli Stati Uniti."
"Ma la mafia ti avrebbe ammazzato!"
"Però tu hai una moglie con qualche parentela da tenere nascosta alle autorità, come molti italo-americani, del resto: e che inoltre, grazie al suo lavoro nell'FBI, ha avuto modo, in passato, di fare qualche favore a questi parenti poco rispettabili. Mai sentito parlare di talpe? E comunque, pare che la mafia non sia più quella di una volta: pensa prima a recuperare i soldi, e poi ad ammazzarti."
"E quanto ti hanno chiesto?"
"Circa tre miliardi. Di lire. Mi ammazzeranno solo dopo, sempre che non si siano convinti che la mia abilità nel truffare le banche gli possa essere utile."
"Non avranno più dubbi, ormai."
"Gli ho dato subito mezzo miliardo: ho venduto tutto, compresa la villetta in periferia, e ho tenuto solo i soldi per comprare questa casa. Sai, qui sotto c'è la centralina telefonica a cui fa capo anche la tua banca: altrimenti non sarei riuscito a entrare nella vostra rete interna, nonostante tutti i miei sforzi."
Fu il mio turno di sogghignare.
"Immaginavo qualcosa del genere. Troppo modesta, questa casa, per due persone piene di soldi come voi!"
"Lo immaginavi? E da quando? Beh, ormai non manca molto: un altro anno e salderò il debito. Poi io ed Helen andremo in Sudamerica, e una volta laggiù ... vedremo quello che succederà."
"Ecco perché parlavi così male del nuovo programma. Solo suoni e colori buoni per ipnotizzare gli impiegati, vero?"
All'improvviso, Federico si alzò.
"Mi dispiace, Maurizio."
"Non credo proprio."
"Ora che non sei più un imbecille ..."
"Sei costretto a uccidermi comunque?"
"Helen?"
Helen parve riflettere, per un attimo.
"Andiamocene, Federico. Non qui."
"In garage?"
"In garage o in campagna. Qui avremmo troppi problemi, dopo."
Federico mi fece strada verso la porta; Helen si mise alle mie spalle, puntandomi la pistola contro la schiena.
In silenzio, uscimmo sul pianerottolo.
"A quest'ora non c'è nessuno, nel palazzo. Lavorano tutti, per tua sfortuna, Maurizio."
Guardai stancamente quello che fino alla sera prima era stato il mio migliore amico.
"Tranne voi due che aspettavate di sentire alla radio una certa notizia, non è vero?"
Federico non rispose. Aprì la porta dell'ascensore, e ci infilammo dentro, tutti e tre.
La pressione della pistola contro la mia schiena si accentuò.
"Il tuo problema, Maurizio, è che usi troppo il cuore, e troppo poco il cervello. Essere in gamba non basta, come vedi."
"E se avessi già parlato con qualcun altro?"
Federico lanciò un'occhiata ad Helen.
"Che ne pensi?"
"Non credo. E comunque è lui il problema più grosso."
L'ascensore si fermò al livello del garage. Uscimmo, nella semioscurità.
"E' tutto come al solito, Helen. Nessuno ci disturberà."
Solo il rumore attutito del traffico interferiva con la quiete di quel posto; fissai preoccupato le zone d'ombra che si stendevano dietro le poche macchine rimaste in garage, quel mattino.
"Federico?"
"Qui? O in macchina?"
"Se provassimo a simulare un incidente?"
"Mica facile. Secondo me è meglio qui."
"Allora ..."
Ma Helen non finì la frase.
"Secondo me dovreste proprio lasciar perdere!"
Helen si voltò di scatto. Una pattuglia di carabinieri, guidata da un maresciallo, stava entrando nel garage dalla rampa d'ingresso: nello stesso momento, l'ascensore venne richiamato ai piani superiori, e da dietro ogni macchina altri carabinieri, con le armi spianate, uscirono fuori.
Federico lasciò cadere la pipa in terra, il volto pietrificato in un espressione di stupore, questa volta autentica.
Io saltai addosso ad Helen; con un braccio l'afferrai alla gola, con l'altro le torsi la mano che reggeva la pistola, finché questa non cadde senza che lei potesse premere il grilletto. Poi rovinammo a terra insieme, in un ultimo, grottesco abbraccio.
Federico ed Helen furono afferrati dai carabinieri, ammanettati e trascinati via.
Mi rialzai, lanciando un ultimo sguardo a Federico; e finalmente potei sfogarmi.
"Stronzo! Chi usa troppo il cervello non ha fantasia!"
Il maresciallo intervenne.
"Dottore, basta adesso. E' finita!"
"Ha ragione. Prima di tutto la devo ringraziare, maresciallo."
Con un tremito, tirai un lungo sospiro. Mi sentivo decisamente meglio.
"Li voleva proprio in galera, quei due, dottore? Non le bastava la denuncia per truffa?"
Mi tolsi il microfono da dentro la giacca.
"Lei ha sentito tutto, maresciallo. Mi basta appena la condanna per tentato omicidio."
Un carabiniere tornò verso di noi.
"Dottore, la registrazione è perfetta. Complimenti!"
Gli restituii il microfono.
"Grazie di nuovo, a tutti voi."
"E di che, dottore? Meno male che non hanno deciso di ammazzarla in casa!"
"E voi che ci stavate a fare, allora?"
"Però ha corso comunque un bel rischio."
"Bisogna rischiare qualcosa, nella vita."
Il maresciallo sospirò.
"Che coraggio che ha avuto, però. Glielo confesso, dottore: al posto suo non me la sarei sentita."
Sorrisi.
"Ma voi uomini d'affari ... si vede che ci siete abituati; ai rischi, voglio dire. Sempre a giocare in borsa: un giorno perdete un sacco di soldi, un altro li riguadagnate ..."
Lo fissai intensamente.
"Ma io non gioco in borsa, maresciallo."
"No?"
"No. Io sono Topolino."
E lo lasciai, a chiedersi invano cosa avessi voluto dire; lo lasciai, e tornai a tuffarmi in una Milano su cui splendeva finalmente un cielo azzurro. Una Milano dove, da qualche parte, Miriam, nel suo bellissimo alone rosso, aspettava una mia telefonata.


Il "modus operandi" di Federico è molto simile a quello della persona che ho chiamato "Sergio", in "Liliana". D'altronde, un Sergio compare anche in questo racconto, e la moglie del protagonista, non casualmente, ha lo stesso nome della mia prima ragazza: l'unica, fra quelle che ho avuto, di cui non riesco proprio a serbare un buon ricordo.
Più in generale, molti dei temi di "Liliana" - le false "amicizie", il tradimento, l'angoscia che viene dal trovarsi in certe situazioni - si ritrovano in questo racconto che, partito come una storia di fantascienza, finisce per diventare un giallo di stampo classico: ciò nonostante, o forse proprio per questo motivo, il risultato ha soddisfatto sia me che i miei "lettori". Una volta tanto!